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Testo unico in materia di Sanità e Servizi sociali (9-4-2015)
Umbria
Legge n.11 del 9-4-2015
n.21 del 15-4-2015
Politiche socio sanitarie e culturali
/ Rinuncia impugnativa
Con deliberazione del Consiglio dei Ministri in data 11 giugno 2015 è stata impugnata da parte del Governo la legge della Regione Umbria n. 11 del del 9 aprile 2015 recante "Testo unico in materia di Sanità e Servizi Sociali".
E' stata sollevata questione di legittimità costituzionale in quanto varie norme (articoli: 26, 33, 153, 154, 211, 215, 219, 225 e 239) presentavano profili di illegittimità costituzionale in relazione al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost., nonché ai principi fondamentali della legislazione statale nelle materie di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.
Successivamente la Regione Umbria, con la legge regionale 17 agosto 2016, n. 10, recante "Modificazioni ed integrazioni alla legge regionale 9 aprile 2015, n. 11 (Testo unico in materia di Sanità e Servizi sociali) e alla legge regionale 30 marzo 2015, n. 8 (Disposizioni collegate alla manovra di bilancio 2015 in materia di entrate e di spese - Modificazioni ed integrazioni di leggi regionali)" ha apportato alla legge regionale n. 11 del 9 aprile 2015 modifiche tali da eliminare i motivi di incostituzionalità.
Pertanto, considerato che sono venute meno le ragioni che hanno condotto all'impugnativa delle disposizioni considerate illegittime, si ritiene che vi siano i presupposti per la rinuncia al ricorso.
11-6-2015 /
Impugnata
La legge della regione Umbria 9 aprile 2015, n. 11, recante “Testo unico in materia di Sanità e Servizi sociali”, presenta profili d’illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 26, comma 1, all’art. 33, all’art. 153, all’art. 154, comma 2, all'art. 211, all'art. 215, commi 3 e 5, all'art. 219, comma 2, all’art. 225 e all’art. 239.
La legge regionale in esame, secondo quanto previsto dall’art.1, riunisce in un testo unico le disposizioni delle legge regionali in materia di Sanità e Servizi sociali, ai sensi dell'articolo 40 dello Statuto regionale e in attuazione della legge regionale 16 settembre 2011, n. 8 (Semplificazione amministrativa e normativa dell'ordinamento regionale e degli Enti locali territoriali).
Al riguardo occorre premettere che:
a) l’art. 40 dello Statuto dell’Umbria prevede che:
“1. L'Assemblea legislativa autorizza con legge la Giunta a redigere, entro un tempo stabilito, progetti di testi unici di riordino e di semplificazione delle disposizioni riguardanti uno o più settori omogenei. La legge determina l'ambito del riordino e della semplificazione e fissa i criteri direttivi, nonché gli adempimenti procedurali a cui la Giunta si deve conformare”.
2. Nel termine assegnato dalla legge la Giunta presenta all'Assemblea il progetto di testo unico delle disposizioni di legge. Il progetto è sottoposto all'approvazione finale dell'Assemblea con sole dichiarazioni di voto.
3. Le proposte di legge tendenti a modificare gli atti legislativi oggetto di riordino e di semplificazione e presentate nel periodo prefissato per la predisposizione del progetto di testo unico, sono discusse ed approvate solo sotto forma di proposte di modifica della legge di autorizzazione.
4. Le disposizioni contenute nei testi unici possono essere abrogate solo con previsione espressa; la approvazione di deroghe, di modifiche e di integrazioni deve essere testuale e prevedere, previa verifica del coordinamento formale, l'inserimento delle nuove norme nel testo unico.
5. Nelle materie oggetto del testo unico legislativo, la Giunta, nel rispetto dei criteri di riordino e semplificazione fissati dalla legge e acquisito il parere favorevole della Commissione competente, approva il testo unico delle disposizioni regolamentari di esecuzione di quelle autorizzate e provvede alla redazione di un testo unico compilativo, con l'indicazione per ogni disposizione della relativa fonte, legislativa o regolamentare”
b) Sulla legittimità di detta norma statutaria si è pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n.378/2004, affermando che “l’articolo in contestazione prevede che il Consiglio conferisca alla Giunta un semplice incarico di presentare allo stesso organo legislativo regionale, entro termini perentori, un ‘progetto di testo unico delle disposizioni di legge’ già esistenti in ‘uno o più settori omogenei’, progetto che poi il Consiglio dovrà approvare con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato” e aggiunge inoltre che “Ben può uno statuto regionale prevedere uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini “di riordino e di semplificazione”. La stessa previsione di cui al terzo comma dell'art. 40, relativa al fatto che eventuali proposte di revisione sostanziale delle leggi oggetto del procedimento per la formazione del testo unico, che siano presentate nel periodo previsto per l'espletamento dell'incarico dato alla Giunta, debbano necessariamente tradursi in apposita modifica della legge di autorizzazione alla redazione del testo unico, sta a confermare che ogni modifica sostanziale della legislazione da riunificare spetta alla legge regionale e che quindi la Giunta nella sua opera di predisposizione del testo unico non può andare oltre al mero riordino e alla semplificazione di quanto deliberato in sede legislativa dal Consiglio regionale .
c) E’ fuor di dubbio dunque che la disposizione statutaria, e la richiamata sentenza della Corte Costituzionale, pur consentendo una particolare procedura per la redazione di testi unici a fini di riordino e semplificazione, presuppongono che le norme oggetto della raccolta siano costituzionalmente legittime e quindi rispettose sia del corretto assetto di competenze tra Stato e Regioni, sia della legislazione comunitaria che, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, vincola l’esercizio della potestà legislativa anche delle Regioni.
d) Peraltro anche la legge regionale n. 8 del 2011 (Semplificazione amministrativa e normativa dell'ordinamento regionale e degli Enti locali territoriali), richiamata dall’art. 1 della legge regionale in esame, che autorizza la Giunta regionale a presentare al Consiglio regionale un progetto di testo unico, prevede espressamente, all’art. 6, che nelle materie di legislazione concorrente la Giunta regionale si debba attenere al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella legislazione statale di settore.
Pertanto il Testo Unico regionale, approvato dall’Assemblea regionale, ai sensi della richiamata norma Statutaria e quindi con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato, soggiace al controllo di legittimità svolto dal Governo nell’esercizio del potere che l’art. 127, primo comma, Cost., gli riconosce, di impugnare di fronte alla Corte Costituzionale le leggi regionali.
Sulla scorta di tali considerazioni, numerose norme contenute nella legge regionale in esame, recante “Testo unico in materia di Sanità e Servizi sociali”, ancorché riproduttive di norme regionali contenute in precedenti leggi regionali, risultano impugnabili sia alla luce del mutato quadro normativo di riferimento, sia perché, come affermato da consolidata giurisprudenza costituzionale, l’omessa impugnazione, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di precedenti norme analoghe “non ha alcun rilievo, dato che l’istituto dell’acquiescenza non è applicabile nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale” (cfr. C.Cost . sent. n.139/2013) .
In particolare presentano profili di illegittimità costituzionale, per i motivi di seguito specificati, le seguenti disposizioni:
1) L’articolo 26, comma 1, della legge regionale prevede che “Il Direttore generale delle aziende sanitarie regionali è nominato dal Presidente della Giunta regionale, su conforme deliberazione della Giunta stessa, tra soggetti che non abbiano compiuto il sessantacinquesimo anno di età, [….]”.
Tale disposizione si pone in contrasto con i principi fondamentali in materia di tutela della salute di cui all’art. 3-bis, comma 3, del decreto legislativo n.502/1992, che, nel prevedere le modalità ed i requisisti di nomina del direttore generale, non stabilisce alcun limite di età per il conferimento dell’incarico.
Pertanto l’art. 26, comma 1, della legge regionale in esame, nell’introdurre, ai fini della nomina del direttore generale, un ulteriore requisito rispetto a quelli previsti dalla disciplina del richiamato articolo 3-bis, comma 3, del d.lgs. n. 502/1992, da considerarsi quale principio fondamentale della legislazione statale in materia di tutela della salute, viola l’articolo 117, terzo comma , della Costituzione.
2) L’articolo 33 della legge regionale in esame, nel disciplinare la composizione e i compiti del collegio sindacale presso le aziende sanitarie regionali e presso le aziende ospedaliero universitarie, al comma 3, prevede che “ [.…] Il Collegio sindacale è composto da cinque membri, designati uno dalla regione, uno dal Ministro dell’economia e delle Finanze, uno dal Ministero della salute, uno dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e uno dall’Università degli Studi di Perugia”.
Tale disposizione regionale si pone in contrasto con i principi fondamentali in materia di tutela della salute di cui al d. lgs. n. 502/1992. Infatti l’art. 3-ter, comma 3, di detto decreto, come modificato dall’articolo 1, comma 574, della legge n. 190/2014 (legge di stabilità 2015), stabilisce che: “Il collegio sindacale dura in carica tre anni ed è composto da tre membri, di cui uno designato dal presidente della giunta regionale, uno dal Ministro dell'economia e delle finanze e uno dal Ministro della salute […]”.
La disposizione regionale in esame, altresì, contrasta l’art. 2, comma 1, lett. g), del d.l. n. 174/2012 che, nell’ambito delle norme di riduzione dei costi della politica, prevede che venga data attuazione alle regole stabilite dall’art. 6, comma 5, del d.l. n. 78/2010 riguardanti la riduzione dei componenti degli organi di amministrazione e controllo.
L’articolo 33, comma 3, della legge regionale in esame, pertanto, prevedendo una composizione del collegio sindacale delle aziende ospedaliero universitarie composta da cinque membri, e quindi più ampia rispetto alla composizione prevista dalle suddette disposizioni statali, viola i principi fondamentali della legislazione statale recati dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione sia in materia di tutela della salute, sia in materia di coordinamento di finanza pubblica.
Occorre, altresì, considerare che la legge di stabilità 2015, sopra citata, ha dato piena attuazione alle disposizioni del nuovo Patto della Salute 2014-2016 di cui all’Intesa stipulata in sede di Conferenza Stato-Regioni, nella seduta del 10 luglio 2014, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge n. 131/2003.
Con specifico riguardo alla materia in questione, la predetta intesa, infatti, all’articolo 13, rubricato “controlli”, ha disposto, al comma 1, che “in linea con quanto previsto dall’articolo 6, comma 5, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, ed al fine di rafforzare il ruolo dei collegi sindacali delle aziende sanitarie e garantirne una composizione coerente con le disposizioni del presente Patto, Governo e Regioni convengono che detti collegi siano composti da tre componenti, di cui uno designato dal Presidente della giunta regionale, uno dal Ministro dell’economia e delle finanze ed uno dal Ministro della salute”.
3) L’articolo 153 della legge regionale in esame, al comma 1, prevede l’istituzione, presso la Giunta Regionale, della Consulta tecnico-scientifica per il sistema regionale del sangue, alla quale è affidato, in particolare, il compito di elaborare: a) i programmi promozionali da attivarsi attraverso i mass-media; b) gli interventi di educazione sanitaria diretti a particolari fasce di popolazione; c) le proposte dirette alla migliore tutela dei donatori; d) le proposte concernenti indicazioni per l'aggiornamento degli operatori sul più razionale impiego delle risorse trasfusionali.
Il comma 3 del medesimo articolo disciplina la composizione della Consulta, prevedendo che alla stessa partecipano: a) l'assessore regionale alla sanità o suo delegato, che la presiede; b) i responsabili dei centri trasfusionali, presenti sul territorio regionale; c) cinque esperti designati dalle associazioni dei donatori volontari del sangue individuate con atto della Giunta regionale sulla base della rispettiva rappresentatività; d) un funzionario della Direzione regionale competente della Giunta regionale, e da questa designato.
La predetta disposizione regionale si pone in contrasto con i principi fondamentali in materia di tutela della salute di cui alla legge 21 ottobre 2005, n. 219, recante “principi generali per l'organizzazione delle attività trasfusionali”, e, in particolare, con l’art. 6, comma 1, lettera c), di detta legge n. 219/2005, che affida tutte le funzioni di coordinamento della rete trasfusionale regionale alle Strutture regionali di coordinamento (SRC), da individuarsi, in base al medesimo articolo 6, comma 1, mediante appositi accordi da stipularsi in sede di Conferenza Stato-Regioni.
A tale previsione è stata attuazione con l’Accordo Stato Regioni del 13 ottobre 2011, il quale definisce la Struttura regionale di coordinamento (SRC), prevedendo quanto segue: “La Struttura regionale di coordinamento (SRC) è una struttura tecnico organizzativa della Regione/Provincia Autonoma che garantisce lo svolgimento delle attività di supporto alla programmazione regionale in materia di attività trasfusionali e di coordinamento e controllo tecnico-scientifico della rete trasfusionale regionale, in sinergia con il Centro Nazionale Sangue”. Esso, inoltre, affida alla SRC le “attività di coordinamento del sistema sangue regionale in tutti gli ambiti definiti dalla normativa vigente in materia di attività trasfusionali, al fine di garantire il costante perseguimento degli obiettivi di sistema, rendere omogenei i livelli di qualità, sicurezza, standardizzazione e contribuire al perseguimento dell’appropriatezza in medicina trasfusionale su tutto il territorio della Regione/Provincia Autonoma”.
La Regione, tra l’altro, con delibera della Giunta Regionale n. 1767 del 27/12/2012, ha già istituito la SRC, nel rispetto della richiamata normativa statale.
Pertanto, l’art. 153, della legge regionale in esame, affidando alla richiamata Consulta tecnico-scientifica le funzioni che la citata normativa nazionale attribuisce alla Struttura regionale di coordinamento, contrasta con la medesima normativa statale e viola l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di tutela della salute.
La medesima disposizione regionale in esame , inoltre, determina una duplicazione di organi e competenze, pregiudicando l’efficacia dell’attività di coordinamento, che, invece, in un settore delicato come quello delle attività trasfusionali, risulta di centrale importanza e, pertanto, viola il principio di buon andamento della P.A. di cui all’art. 97 della Costituzione. L’art. 153 della legge regionale contrasta, altresì, con i principi di coordinamento di finanza pubblica recati dall’art. 6 del d.l. n. 78/2010 ai sensi del quale è prevista una riduzione dei costi degli apparati amministrativi e, pertanto viola l’art. 117, terzo comma , Cost., in materia di coordinamento di finanza pubblica.
4) L’articolo 154, comma 2, della legge regionale in esame prevede che “[ ….] la Regione eroga contributi all'Associazione Volontari Italiani del Sangue (AVIS) regionale e alle altre associazioni esistenti e costituite nella Regione, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 ottobre 2005, n. 219 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati)”. Il comma 4 del medesimo articolo aggiunge che “ la Giunta regionale, con proprio atto, stabilisce i criteri per l'erogazione dei contributi di cui al comma 2. I contributi sono erogati dalla Giunta stessa con proprio atto entro il 31 gennaio di ogni anno, sulla base di idoneo programma di attività da parte dei soggetti di cui al comma 2, da presentare entro il 30 novembre dell'anno precedente”.
Le suddette disposizioni regionali si pongono in contrasto con i principi fondamentali in materia di tutela della salute di cui alla legge 21 ottobre 2005, n. 219, recante “principi generali per l'organizzazione delle attività trasfusionali”. In particolare l’art. 6, comma 1, lett. b), stabilisce che con apposito accordo, da sancirsi ai sensi degli articoli 2 e 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.281, venga adottato uno schema tipo per la stipula di convenzioni con le Associazioni e Federazioni di donatori di sangue, per permettere la partecipazione delle stesse alle attività trasfusionali. Si prevede inoltre che tale schema tipo individua anche le tariffe di rimborso delle attività associative uniformi su tutto il territorio nazionale.
A tal riguardo, occorre osservare che l’accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni del 20 marzo 2008 ha dato attuazione alla suddetta disposizione di legge, nel pieno rispetto del principio di leale collaborazione. L’articolo 9 di tal accordo, rubricato “rapporti economici”, dispone, al comma 1, che “per lo svolgimento dell’attività effettuate dalle Associazioni e Federazioni di donatori, in base al presente schema di convenzione, le regioni e le province autonome, garantiscono il rimborso dei costi della attività associative nonché della eventuale attività di raccolta, come da allegato “A”, parte integrante del presente accordo, ritenuti come livello minimo uniforme su tutto il territorio nazionale”.
Sia la norma di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), della legge n. 219/2005, sia il richiamato Accordo attuativo, dunque, fanno riferimento al “rimborso dei costi” delle attività associative.
Pertanto l’art. 154, comma 2, della legge regionale in esame, prevedendo l’erogazione di generici “contributi” alle Associazioni, e non quantificando il rimborso dei costi secondo la determinazione prevista nel citato accordo attuativo, valido sul territorio nazionale, contrasta con i principi fondamentali in materia di tutela della salute di cui al citato articolo 6, comma 1, lettera b), della legge n. 291/2005 e viola l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
5) L’articolo 210, comma 2, della legge regionale in esame, prevede che “ [.…] il proprietario deve provvedere entro centoventi giorni dalla nascita o comunque, entro dieci giorni dal possesso, all'iscrizione dell'animale all'anagrafe di cui al comma 1 contestualmente all'apposizione del codice di riconoscimento, di cui all'art. 211”. Tale articolo 211 stabilendo che “il codice di riconoscimento è impresso mediante tatuaggio o con altro metodo comunque indelebile e chiaramente leggibile”,
risulta in contrasto con il DPCM 28 febbraio 2003, che recepisce l’Accordo recante disposizioni in materia di benessere degli animali da compagnia e pet-therapy, stipulato nella seduta della Conferenza Stato-Regioni del 6 febbraio 2003, in adempimento dell’obbligo internazionale derivante dalla sottoscrizione da parte dell’Italia della “Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli animali da compagnia”, approvata a Strasburgo il 13 novembre 1987.
In particolare, l’articolo 4 del richiamato Accordo, integralmente recepito dal DPCM in questione, prevede che le regioni si impegnino ad adottare misure dirette a ridurre il fenomeno del randagismo mediante “l’introduzione del microchip, come unico sistema ufficiale di identificazione dei cani, a decorrere dal 1° gennaio 2005“.
Inoltre, tale DPCM, nel richiamare il citato accordo, prevede, all’articolo 1, comma 2, l’impegno, da parte del Governo e delle regioni, ciascuno per la parte di propria competenza, ad adottare misure in grado di identificare gli animali mediante l’utilizzo di appositi microchips.
La disposizione di cui all’articolo 211 della legge regionale in esame, pertanto, prevedendo il sistema del tatuaggio come codice di riconoscimento dei cani, in luogo del microchip, contrasta con il richiamato DPCM del 28 febbraio 2003 e disattende l’obbligo internazionale posto a base dell’Accordo Stato Regioni del 6 febbraio 2003 e del richiamato DPCM del 28 febbraio 2003, in violazione dell’articolo 117, primo comma , della Costituzione, che vincola al rispetto degli obblighi internazionali anche l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni.
La disposizione regionale in esame viola, altresì, i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute (nella specie, della sanità animale) di cui all’articolo 117, terzo comma , della Costituzione.
6) l’articolo 215 della legge regionale in esame, rubricato “randagismo”, al comma 3 stabilisce che i cani vaganti catturati, regolarmente tatuati, devono essere restituiti al proprietario; il comma 5 del medesimo articolo prevede l’obbligo di tatuaggio per i cani vaganti privi di tale contrassegno.
Tali disposizioni risultano in contrasto con il predetto DPCM 28 febbraio 2003, che recepisce l’Accordo recante disposizioni in materia di benessere degli animali da compagnia e pet-therapy, stipulato nella seduta della Conferenza Stato-Regioni del 6 febbraio 2003, in adempimento dell’obbligo internazionale derivante dalla sottoscrizione da parte dell’Italia della “Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli animali da compagnia”, approvata a Strasburgo il 13 novembre 1987.
In particolare, l’articolo 4 del richiamato Accordo, integralmente recepito dal DPCM in questione, prevede che le regioni si impegnino ad adottare misure dirette a ridurre il fenomeno del randagismo mediante “l’introduzione del microchip, come unico sistema ufficiale di identificazione dei cani, a decorrere dal 1° gennaio 2005“.
Inoltre, tale DPCM, nel richiamare il citato accordo, prevede, all’articolo 1, comma 2, l’impegno, da parte del Governo e delle regioni, ciascuno per la parte di propria competenza, ad adottare misure in grado di identificare gli animali mediante l’utilizzo di appositi microchips.
L’art . 215 della legge regionale in esame, pertanto, nel prevedere l’obbligo del tatuaggio dei cani randagi, anziché l’obbligo del microchip, contrasta con il richiamato DPCM del 28 febbraio 2003 e disattende l’obbligo internazionale posto a base dell’Accordo Stato Regioni del 6 febbraio 2003 e del m DPCM del 28 febbraio 2003, in violazione dell’articolo 117, primo comma , della Costituzione, che vincola al rispetto degli obblighi internazionali anche l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni.
La disposizione regionale in esame viola, altresì, i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute (nella specie, della sanità animale) di cui all’articolo 117, terzo comma , della Costituzione.
7) l’articolo 219, comma 2, della legge regionale in esame che disciplina le sanzioni per l’omesso tatuaggio (e non per l’omesso impianto microchip), risulta in contrasto con il citato DPCM 28 febbraio 2003, che recepisce l’Accordo recante disposizioni in materia di benessere degli animali da compagnia e pet-therapy, stipulato nella seduta della Conferenza Stato-Regioni del 6 febbraio 2003, in adempimento dell’obbligo internazionale derivante dalla sottoscrizione da parte dell’Italia della “Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli animali da compagnia”, approvata a Strasburgo il 13 novembre 1987.
In particolare, l’articolo 4 del richiamato Accordo, integralmente recepito dal DPCM in questione, prevede che le regioni si impegnino ad adottare misure dirette a ridurre il fenomeno del randagismo mediante “l’introduzione del microchip, come unico sistema ufficiale di identificazione dei cani, a decorrere dal 1° gennaio 2005“.
Il DPCM 28 febbraio 2003, infatti, nel richiamare il citato accordo, prevede, all’articolo 1, comma 2, l’impegno, da parte del Governo e delle regioni, ciascuno per la parte di propria competenza, ad adottare misure in grado di identificare gli animali mediante l’utilizzo di appositi microchips.
La disposizione di cui all’articolo 219 della legge regionale in esame, pertanto, prevedendo l’irrogazione di sanzioni solo per l’omesso tatuaggio e non anche per l’omesso impianto microchip, contrasta con il suddetto DPCM del 28 febbraio 2003 e disattende l’obbligo internazionale posto a base dell’Accordo Stato Regioni del 6 febbraio 2003 e del richiamato DPCM del 28 febbraio 2003, in violazione dell’articolo 117, primo comma , della Costituzione, che vincola al rispetto degli obblighi internazionali anche l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni.
La disposizione regionale in esame viola, altresì, i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute (nella specie, della sanità animale) di cui all’articolo 117, terzo comma , della Costituzione.
8) L’articolo 225 della legge regionale citata, al comma 1, stabilisce che “Il medico veterinario che nell'esercizio delle proprie attività accerti in qualsiasi modo, anche senza l'ausilio di analisi strumentali, l'avvelenamento di specie animale domestica o selvatica, è tenuto - utilizzando apposita scheda - a darne comunicazione entro ventiquattro ore alla polizia provinciale, all'Azienda USL competente per territorio e al Sindaco del Comune dove è stato rinvenuto l'animale”.
Tale disposizione regionale contrasta con l’ordinanza del Ministero della salute 10 febbraio 2012, recante “Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o di bocconi avvelenati”. Tale ordinanza, che è espressione dei principi fondamentali in materia di tutela della salute, introdotti dal d.lgs. n. 174/2000, in attuazione della direttiva 98/8/CE in materia immissione sul mercato di biocidi, all’art. 2, comma 1, prevede che “il medico veterinario che, sulla base di una sintomatologia conclamata, emette diagnosi di sospetto avvelenamento di un esemplare di specie animale domestica o selvatica, ne dà immediata comunicazione al sindaco e al Servizio veterinario dell’azienda sanitaria locale territorialmente competente”. In base a tale disposizione, dunque, la comunicazione al sindaco e al Servizio veterinario dell’azienda sanitaria locale territorialmente competente deve essere effettuata dal medico veterinario anche sulla base del mero “sospetto di avvelenamento”, sulla base dei una sintomatologia conclamata, e ciò per ovvie ragioni di precauzione a tutela della salute.
Pertanto l’articolo 225, comma 1, della legge regionale in esame, nel prevedere che la comunicazione deve essere effettuata dal medico solo in caso di “accertato avvelenamento” contrasta con la predetta disposizione statale che obbliga il medico veterinario a segnalare anche i casi di mero sospetto di avvelenamento, e viola l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di tutela della salute.
9) L’articolo 239 della legge regionale in esame, nel dettare norme inerenti le farmacie, prevede che “la pianta organica delle farmacie è approvata dall'Assemblea Legislativa su proposta della Giunta regionale, nel rispetto dei parametri individuati dalla normativa nazionale”.
Al riguardo, occorre evidenziare che il quadro normativo nazionale in materia di potenziamento del servizio di distribuzione farmaceutica e di accesso alla titolarità delle farmacie, demanda ai Comuni, e non già alla regione, la competenza ad istituire le nuove sedi farmaceutiche.
In particolare, l’articolo 11, comma 1, lettera c) del decreto-legge n.1/2012 nel modificare l’articolo 2 della legge n.475/1968, stabilisce che “[…..] Ogni comune deve avere un numero di farmacie in rapporto a quanto disposto dall'articolo 1 [della legge n. 475/1968 ai sensi del quale “Il numero delle autorizzazioni è stabilito in modo che vi sia una farmacia ogni 3.300 abitanti” (comma 2)]. Al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate”. Il comma 2 del medesimo articolo 11 aggiunge che “Ciascun comune, sulla base dei dati ISTAT sulla popolazione residente al 31 dicembre 2010 e dei parametri di cui al comma 1, individua le nuove sedi farmaceutiche disponibili nel proprio territorio e invia i dati alla regione entro e non oltre trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Ne deriva che, ferma restando una peculiare competenza delle regioni o delle provincie autonome di Trento e di Bolzano ad assicurare l’espletamento del concorso straordinario finalizzato all’assegnazione delle sedi farmaceutiche disponibili, viene espressamente attribuita ai Comuni la competenza ad individuare dette sedi. Ciò trova ulteriore conferma nel successivo comma 9 del richiamato articolo 11, il quale espressamente prevede che “Qualora il comune non provveda a comunicare alla regione o alla provincia autonoma di Trento e di Bolzano l'individuazione delle nuove sedi disponibili entro il termine di cui al comma 2 del presente articolo, la regione provvede con proprio atto a tale individuazione entro i successivi sessanta giorni”.
Dal tenore letterale di quest’ultima disposizione si evince manifestamente che una possibile competenza della regione all’individuazione delle sedi farmaceutiche riveste un carattere eccezionale che si giustifica solo innanzi ad una eventuale inerzia da parte del comune, contrariamente a quanto espressamente previsto all’articolo 239 della legge regionale citata.
Pertanto l’art. 239 della legge regionale in esame, nel derogare alle richiamate norme statali (art. 11 del decreto-legge, n.1/2012 e articolo 1 della legge n. 475/1968) che affidano ai comuni le predette funzioni amministrative, volte ad assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, anche da parte dei cittadini residenti in aree scarsamente abitate, nonché a garantire un’equa distribuzione sul territorio delle sedi farmaceutiche, viola l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di tutela della salute.
Per i suddetti motivi, le disposizioni regionali sopra indicate devono essere impugnate dinanzi alla Corte Costituzionale, ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.
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