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Collegato alla legge di stabilità regionale 2017. (30-12-2016)
Veneto
Legge n.30 del 30-12-2016
n.127 del 30-12-2016
Politiche economiche e finanziarie
/ Rinuncia impugnativa
Con delibera del Consiglio dei Ministri del 23 febbraio 2017 è stata impugnata la legge della regione Veneto n. 30 del 30 dicembre 2016 recante: "Collegato alla legge di stabilità regionale 2017”, per numerose disposizioni considerate illegittime.
La Corte Costituzionale ha ritenuto di ripartirle per argomento e di conseguenza sulla medesima legge regionale N. 30/2016 sono state prodotte cinque sentenze: nn. 66/2018; 69/2018; 82/2018; 83/2018; 98/2018.
Sono rimaste non giudicate le seguenti tre questioni:
1. l’articolo 30, comma 1, riconosceva ai professori e ricercatori universitari, che svolgono attività assistenziale all’interno delle aziende ospedaliero-universitarie, un trattamento economico che garantiva l'equiparazione della retribuzione complessiva tra personale universitario e personale del Servizio sanitario nazionale, mediante l'attribuzione di un'eventuale indennità integrativa, a carico dell’ente del SSR. La disposizione era in contrasto con l’art. 6 del d. lgs. 517/1997 e con l’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile (contratti collettivi).
2. l'articolo 33, il quale, nel prevedere il subentro delle Aziende sanitarie locali nella gestione liquidatoria delle disciolte Unità locali socio-sanitarie, si poneva in contrasto con l’art. 6, comma 1, della legge n. 724/1994, il quale dispone che in nessun caso è consentito alle regioni di far gravare sulle aziende sanitarie i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali. La disposizione regionale violava, pertanto, i principi in materia di tutela della salute di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
3. l’articolo 29, commi 3 e 4, in quanto prevedeva che, in presenza di riorganizzazioni dell'area tecnico-amministrativa degli enti del servizio sanitario regionale, i fondi per la contrattazione integrativa del personale dirigenziale erano permanentemente ridotti, senza recare espressamente il riferimento al limite percentuale previsto, per detta tipologia di risparmi, dall’articolo 16, commi 4 e 5, del d.l. n. 98/2011, secondo cui le economie derivanti da spese di riordino e ristrutturazione amministrativa possono essere utilizzate annualmente nell’importo massimo del 50% per la contrattazione integrativa. Tali norme si ponevano in contrasto sia con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di coordinamento della finanza pubblica, sia con l’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile.
La Regione ha successivamente emanato la legge regionale n. 45 del 29 dicembre 2017, che:
1. all’articolo 37 ha modificato l’articolo 30, comma 1, delle legge regionale Veneto n. 30/2017, riconoscendo ai professori e ricercatori universitari inseriti in assistenza il trattamento economico previsto dall'articolo 6 del decreto legislativo n. 517/1999.
2. all’articolo 35 ha modificato l’articolo 33, delle legge regionale Veneto n. 30/2017, precisando la separazione contabile e segregazione patrimoniale delle Unità locali socio sanitarie rispetto alla gestione contabile e patrimoniale delle Aziende Sanitarie e quindi consentendo di ritenere rispettati i principi fondamentali posti in materia.
3. ed infine, all’articolo 36, comma 1, ha modificato invece l’articolo 29, commi 3 e 4, della l.r. n. 30/2017 stabilendo, per i suddetti risparmi, la destinazione di un importo massimo del 50 per cento per la contrattazione integrativa.
Tali disposizioni, in linea con la normativa nazionale, consentono di superare i rilievi di incostituzionalità alla base del ricorso in Corte costituzionale.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ed il Ministero della Salute hanno espresso parere favorevole in merito alla rinuncia dell’impugnativa delle disposizioni sopra indicate, ciascuno per le materie di propria competenza.
Pertanto, considerato che appaiono venute meno le ragioni che hanno determinato l'impugnativa delle disposizioni della legge regionale sopra indicate, sussistono i presupposti per rinunciare al ricorso nei confronti delle stesse.
Si propone, pertanto, la rinuncia all'impugnazione della legge della Regione Veneto n. 30/2016.
23-2-2017 /
Impugnata
La legge Regione Veneto n.30 pubblicata sul B.U.R n. 127 del 30/12/2016 , recante “ Collegato alla legge di stabilità regionale 2017” presenta profili illegittimi per le norme di seguito indicate:
L'articolo 33 della legge regionale in esame prevede che: "Le gestioni liquidatorie delle disciolte Unità locali socio sanitarie di cui all'articolo 45 bis della legge regionale 14 settembre 1994, n. 55 e all'articolo 27 della legge regionale 14 settembre 1994 n. 56 sono definitivamente chiuse al 31 dicembre 2016, e le Aziende Sanitarie territorialmente competenti, a decorrere dalla data del 1º gennaio 2017, subentrano nella titolarità di tutti i rapporti giuridici e processuali delle rispettive gestioni liquidatorie delle disciolte Unità locali socio sanitarie.".Tale disposizione regionale prevede il subentro delle Aziende sanitarie nella gestione liquidatoria delle disciolte Unità locali socio sanitarie.
A tal riguardo, si rappresenta che l'articolo 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994 n. 724 dispone che: "In nessun caso e consentito alle regioni di far gravare sulle aziende di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, ne direttamente ne indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unite sanitarie locali. A tal fine le regioni dispongono apposite gestioni a stralcio, individuando l' ufficio responsabile delle medesime.".
Inoltre, l'articolo 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 stabilisce che
"[..., le regioni attribuiscono ai direttori generali delle istituite aziende unità sanitarie locali le funzioni di commissari liquidatori delle soppresse units sanitarie locali ricomprese nell' ambito territoriale delle rispettive aziende. Le gestioni a stralcio di cui all'articolo 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, sono trasformate in gestioni liquidatorie.".
Quest'ultima norma chiarisce, tra l'altro, l'intento del legislatore che, disponendo la trasformazione delle "gestioni stralcio" in "gestioni liquidatorie", attribuisce, altresi, ai direttori generali le funzioni di commissari liquidatori delle soppresse unita sanitarie locali.
Sembra opportuno, al riguardo, richiamare quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 116/2007, secondo la quale "i precetti di cui all'articolo 6, comma 1, ultima parte, della legge 724 del 1994 costituiscono principi fondamentali in materia di tutela della salute (sentenze n. 437 del 2005 ). Da tale definizione è stata fatta discendere la conseguenza che in nessun caso la legislazione regionale può confondere la liquidazione dei pregressi rapporti delle unita sanitarie locali con l'ordinaria gestione delle ASL. al duplice fine di sottrarre le ASL al peso delle preesistenti passivita a carico delle USL e di fornire ai creditori di queste ultime la necessaria certezza sulla titolarità passiva del rapporti e sulla individuazione dei mezzi su cui soddisfarsi (sentenze n. 89 del 2000 e n. 437 del 2005, nonchè, da ultimo, sentenza n. 25 del 2007). ". Sul punto, si è espressa, più volte, anche la Corte di Cassazione (si veda Corte di Cassazione, sezione III,sentenza 15 maggio 2014, n. 10629), chiarendo che le gestioni stralcio (al pari di quelle liquidatorie) mantengono l'autonoma soggettività giuridica delle disciolte USL e, specificando, ulteriormente, che le gestioni liquidatorie fruiscono della stessa soggettività dell'organo soppresso (si veda Cass., SS.UU., sentenza n. 23022/2005).
Inoltre, è stato affermato il principio della continuità soggettiva tra le gestioni stralcio e gli enti soppressi durante la fase liquidatoria (si veda Cass., sentenza n.
10135/2012).
E' stato, altresì, ribadito (si veda Cons. Stato, sez VI, 22 gennaio 2001, n.184), che "a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 30.12.1992 n. 502 e delle leggi nn.724/1994 e 549/1995, le nuove Aziende Sanitarie locali (ASL) non sono subentrate nei rapporti obbligatori dei quali erano parti le Unità sanitarie locali (USL), essendo stati trasferiti i debiti di queste ultime alle Regioni".
Da quanto sopra esposto, pertanto, la disposizione regionale di cui all'articolo 33 della legge regionale in esame si pone in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute rappresentati dall'articolo 6, comma 1 della legge, n. 724/1994 e conseguentemente viola l'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione e pertanto deve essere sottoposto a giudizio ex art. 127 della Costituzione.
L'articolo 34 della legge regionale in esame modifica la legge regionale 16 agosto 2002, n. 22, recante "Autorizzazione e accreditamento della strutture sanitarie, socio sanitarie e sociali.".
In particolare, il comma 3 dell'articolo 34 sopra citato della legge regionale in esame prevede quanto segue: "alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 dopo le parole: "nei rimanenti casi" sono inserite le seguenti: "con esclusione degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice. ". Il successivo comma 4, nell'aggiungere un ulteriore comma dopo il comma 2 dell'articolo 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22, prevede quanto segue: "2 bis. L'autorizzazione alla costruzione, ampliamento, trasformazione, trasferimento in altra sede degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice richiesta da istituzioni ed organismi a scopo non lucrativo, nonché da strutture private è rilasciata dalla Giunta regionale, sentita la competente Commissione consiliare, fatto salvo quanto disposto dall'articolo 2, comma 1, lettera g), n. 7, della legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19.".
Con tale previsione si intende escludere dalla competenza del Comune, in materia di autorizzazione alla realizzazione, gli ospedali di comunità, le unità territoriali e gli hospice demandando alla Giunta regionale tale competenza.
A tal riguardo, si rappresenta che l'articolo 8 ter, comma 3 del decreto legislativo n. 502/1992 stabilisce che: "Per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie il comune acquisisce, nell'esercizio delle proprie competenze in materia di autorizzazioni e concessioni di cui all'art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 493 e successive modificazioni, la verifica di compatibilità del progetto da parte della regione. Tale verifica è effettuata in rapporto al fabbisogno complessivo e anti localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di meglio garantire l'accessibilita ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture.".
Premesso quanto sopra, si rileva che l'articolo 34, comma 3, della legge regionale in esame, escludendo gli ospedali di comunità, le unità territoriali e gli hospice dalla competenza del Comune in materia di autorizzazioni alla realizzazione, contrasta con la citata normativa statale, in base alla quale il Comune, in tale ambito, acquisisce, nell'esercizio delle proprie competenze, la verifica di compatibilita del progetto da parte della Regione. Conseguentemente, anche il comma 4 dell'articolo 34 della legge regionale in esame risulta essere in contrasto con la citata normativa statale.
Si ravvisa, pertanto, la palese violazione dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, per contrasto con i principi fondamentali in materia di tutela della salute, rappresentati nel caso di specie dall'articolo 8 ter del decreto legislativo, 502/1992.
Al riguardo, peraltro, la Consulta ha recentemente ribadito the "se è condivisibile che la competenza regionale in tema di autorizzazione e vigilanza delle istituzioni sanitarie private vada inquadrata nella potesta legislativa concorrente in materia di tutela della salute (di cui all'art. 117, comma terzo, Cost.), resta, comunque, 1...] precluso alle Regioni di derogare a norme statali che fissano principi fondamentali" (Corte Cost., 7 giugno 2013, n. 132).
Inoltre, si ravvisa una violazione delle prerogative comunali ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, della Costituzione che prevede quanto segue: "I Comuni, le Province e le CHO metropolitan sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.". Anche per tale aspetto la norma regionale deve essere impugnata.
Infatti, la previsione che l'autorizzazione alla realizzazione delle strutture sociosanitarie indicate dalla disposizione regionale in esame venga disposta direttamente dalla regione anche dove tali strutture siano realizzate da soggetti privati lede I'autonomia del Comune in materia di organizzazione e governo del territorio.
Pertanto i commi 3 e 4 dell'articolo 34 devono essere impugnati ex articolo 127 della Costituzioni per le violazioni indicate delle norma interposte e i relativi parametri costituzionali.
Articolo 63, comma 7
La disposizione, inserendo il comma 1-bis all’art. 45-ter della legge regionale n. 11 del 2004, prevede che “La Giunta regionale, in attuazione all'accordo con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT) di cui agli articoli 135, comma 1 e 143, comma 2, del Codice, nelle more dell'approvazione del piano paesaggistico di cui al comma 1, procede alla ricognizione degli immobili e delle aree dichiarate di notevole interesse pubblico e delle aree tutelate per legge di cui, rispettivamente, agli articoli 136 e 142, comma 1, del Codice”.
Al riguardo, si osserva che la disposizione viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio di cui all’art. 117, comma 2, lett. s), prevedendo un procedimento differente rispetto alle norme interposte costituite dagli articoli 135 e 143 del codice di settore, che prevedono l’elaborazione congiunta Stato-Regione del piano paesaggistico regionale. In particolare, l’art. 143, comma 1, del codice, dettando una disciplina dettagliata , dispone che l’elaborazione del piano paesaggistico comprende, tra l’altro, la ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell'articolo 136 e all’art. 142 del codice. Né, invero, la suddetta disposizione appare in linea con gli obiettivi e le attività concordate e sottoscritte, nell’anno 2008, con il richiamato Protocollo di Intesa e il successivo disciplinare del 2009, tra il MIBACT e la Regione Veneto. La norma pertanto deve essere impugnata per le addotte motivazioni.
Art. 68, comma 1 (Norme semplificative per la realizzazione degli interventi di sicurezza idraulica) prevede che , “Gli interventi di manutenzione degli alvei, delle opere idrauliche in alveo, delle sponde e degli argini dei corsi d'acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale arborea e arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque possono essere eseguiti senza necessità di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'articolo 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 e successive modificazioni" e della valutazione di incidenza ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 "Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche" previa verifica della sussistenza di tali presupposti ai sensi delle disposizioni statali e regionali.”
La norma, disponendo la sottrazione di alcuni interventi all’autorizzazione paesaggistica, detta disposizioni riservate dall’art. 117, comma secondo, lettere m) e s), Cost., alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ponendosi, altresì, in contrasto con le disposizioni interposte di cui agli articoli 146 e 149 del codice dei beni culturali.
Spetta, infatti, solo al legislatore statale individuare le tipologie di interventi per i quali l'autorizzazione paesaggistica non è richiesta ai sensi dell'articolo 149 del medesimo codice.
In tal senso la Corte costituzionale ha più volte deciso, stabilendo che “Chiare ed inequivocabili sono, quindi, le esigenze di uniformità della disciplina in tema di autorizzazione paesaggistica su tutto il territorio nazionale, tanto da giustificare – grazie al citato parametro (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) – che si impongano anche all’autonomia legislativa delle Regioni” e che “non è consentito alla Regione autonoma di individuare altre tipologie di interventi realizzabili in assenza di autorizzazione paesaggistica, al di fuori di quelli tassativamente individuati dall’art. 149, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004” (sentenze n. 207 del 2012 e n. 238 del 2013).
Al riguardo, l’art. 12, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, come modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, ha previsto che, con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, d'intesa con la Conferenza unificata, sono individuate le tipologie di interventi per i quali l'autorizzazione paesaggistica non è richiesta, ai sensi dell'articolo 149 del codice, sia nell'ambito degli interventi di lieve entità già compresi nell'allegato 1 al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (DPR n. 139 del 2010), sia mediante definizione di ulteriori interventi minori privi di rilevanza paesaggistica.
L’art. 79 presente aspetti illegittimi come evidenziato di seguito :
Con DPR del 28.07.2000, n. 314 è stato adottato il "Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell'imprenditoria femminile (n. 54, allegato 1, della legge n. 59/1997". Detto Regolamento ha profondamente innovata le modalità e le procedure per la concessione dei contributi previsti dalla legge n. 215/92 "Azioni positive per l'imprenditoria femminile", rispetto al precedente Regolamento di attuazione (DM n. 706/1996).
Con riguardo alla normativa di attuazione della citata legge, il sopra citato D.P.R. n. 314/2000, all'art. 12 "Integrazione delle risorse statali da parte delle regioni" stabilisce che le regioni possono disporre un'integrazione delle quote di risorse statali, assegnando fondi propri al finanziamento delle iniziative ammissibili alle agevolazioni.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del DPR suddetto, qualora vi sia stata un'integrazione delle risorse da parte della regione, la domanda di ammissione alle agevolazioni, e’ trasmessa dalla ditta richiedente, alla regione nella quale l'iniziativa avrà luogo.
Il successivo comma 3 recita "La regione …. Provvede all'esame delle domande verificandone, in particolare, la completezza, il contenuto, la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla legge e dal presente regolamento, nonché la validità tecnica, economica e finanziaria del progetto e, ove le caratteristiche di questo lo consentano, il relativo impatto ambientale".
Infine, ai sensi del comma 9, art. 13 del DPR n. 314/2000, la regione, inserite in graduatoria le domande ritenute ammissibili, approva le suddette graduatorie e provvede a trasmetterle al Ministero, il quale a sua volta provvederà a pubblicarle.
Nell'ipotesi sopradescritta, pertanto, rimane in capo al Ministero la sola funzione di emanazione delle norme generali regolatrici del procedimento di ripartizione delle risorse e quella di coordinamento operativo dell'attività delle regioni, nonché la mera pubblicazione delle graduatorie da queste approvate, che non comporta alcuna valutazione di merito sulle stesse.
La procedura agevolativa viene gestita dalle Regioni, ivi compresa l'adozione dell'eventuale provvedimento di revoca.
Ai sensi del successivo art. 20, comma 1, "le regioni o le province autonome, ovvero il Ministero nel caso in cui le regioni non abbiano provveduto all'integrazione delle risorse statali di cui all'articolo 12, comma i, provvedono alla revoca totale o parziale delle agevolazioni concesse … ", in particolare;
alla lettera b) qualora "i controlli effettuati evidenziano l'insussistenza delle condizioni previste dalla legge o dal presente regolamento, ovvero il venir meno delle condizioni stabilite dall'articolo 2, comma 1, lettera a), della legge, in ordine alla presenza femminile nell'impresa";
alla lettera c) qualora "i beni oggetto dell'agevolazione risultano essere stati ceduti, alienati o distratti, nei cinque anni successivi alla data di concessione dell'agevolazione"; alla lettera d) qualora "gli elementi che hanno determinato l'attribuzione del punteggio per l'inserimento in graduatoria subiscano variazioni superiori ai limiti di scostamento indicati con il decreto di cui all'articolo IO, comma 2".
Analizzando, più specificamente nel merito, la proposta normativa regionale si precisa, quindi, quanto segue.
Il comma i dell'articolo 79, introduce una deroga alla suddetta disciplina statale stabilendo che".,., in considerazione della gravità della crisi economica che ha colpito il sistema produttivo regionale veneto… non si procede alla revoca dell’agevolazione nei casi di violazione delle lettere b), c) e d) del comma 1 dell'art. 20 D.P.R. n. 314/2000… " Tale dizione normativa nella sua assoluta genericità non giustificherebbe il mancato recupero di risorse pubbliche erogate e non utilizzate nel rispetto della normativa vigente e potrebbe, pertanto, apparire arbitraria e priva di un fondamento giustificativo che sorregga la differenziazione normativa introdotta.
Inoltre, deve essere sottolineato che tali decisioni non possono essere adottate a livello regionale solo "in considerazione della gravità della crisi che ha colpito il sistema produttivo regionale veneto" e per semplificare la definizione delle procedure, accelerando la definizione dei progetti agevolativi in essere (comma 1), in quanto si potrebbe determinare un'ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle altre imprese presenti su tutto il territorio nazionale, parimenti coinvolte nella grave crisi economica e per le quali occorre garantire il medesimo trattamento nel rispetto delle regole della concorrenza.
Infine deve essere evidenziato che si tratta di atti per i quali, comunque, vi e’ stato esborso di risorse pubbliche, che avrebbero potuto essere utilizzate da altre imprese presenti nella regione ed escluse dai finanziamenti, indirettamente beneficiandone il sistema produttivo regionale.
Le stesse ragioni dell'impossibilità di procedere al recupero delle somme e la crisi delle imprese locali non giustificherebbero, da sole, la differenza nell'importo da restituire al Mise, che da ultima rendicontazione fornita a questa Amministrazione dai competenti uffici della regione Veneto, risulta pari a € 5.888.151,667, e non a € 4.500.000,00, come riportato nel comma 2, dell' art.79 in esame.
Non è pertanto conforme alla Costituzione ed alla vigente disciplina nazionale e comunitaria, alla luce di quanto rappresentato, la previsione regionale sopra descritta, che incide nell’ambíto, di strumenti di politica economica che hanno carattere unitario in quanto finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico nazionale, ledendo i principi di tutela della concorrenza e perequazione delle risorse finanziarie di cui all'.117, comma 2, lett.e) Cost. La norma in esame dunque va impugnata.
L'articolo 95, recante "Prime disposizioni in materia di pianificazione regionale delle attività di cava" nel dettare alcune disposizioni per la disciplina delle attività estrattive, al comma 2, regola le attività di lavorazione e stoccaggio presso cave non estinte dei materiali di scavo derivanti dalla realizzazione di opere pubbliche, prevedendo inter alia che queste ultime attività sia consentite soltanto per materiali qualificabili come sotto prodotti ai sensi della normativa vigente (L.R. n. 30/2016 art. 95, comma 2 lett. a).Tale previsione dell'art. 95, comma 2 contrasta con quanto stabilito dall'art. 117 Cost., secondo comma, lettera s) che stabilisce la competenza esclusiva statale in materia di ambiente, poiché tale disposizione regionale incide nell'ambito della disciplina del trattamento dei sottoprodotti previsto dall'art. 184 bis del d.lgs. N. 152/2006, ricadente nella competenza esclusiva statale.
Infatti lo smaltimento delle terre e rocce da scavo è una disciplina che interviene in materia di legislazione statale esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.. Tale principio è stato reiteratamente affermato da una serie di recenti sentenze della Corte Costituzionale (n. 232 del 2014; n. 70 del 2014; n. 300 del 2013): “la disciplina delle procedure per lo smaltimento delle rocce e terre da scavo attiene al trattamento dei residui di produzione ed perciò da ascriversi alla "tutela dell'ambiente", affidata in via esclusiva alle competenze dello Stato, affinché siano garantiti livelli di tutela uniformi su tutto il territorio nazionale». Pertanto, «in materia di smaltimento delle rocce e terre da scavo non residua alcuna competenza - neppure di carattere suppletivo e cedevole - in capo alle Regioni e alle Province autonome in vista della semplificazione delle procedure da applicarsi ai cantieri di piccole dimensioni» (così la sentenza n. 232 del 2014). Per le esposte motivazioni le disposizioni recante dall’articolo 95, comma 2, contrasta con l’articolo 184 bis del decreto legislativo n. 152/2006 eccedendo la competenza regionale in violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera s) della Costituzione e deve essere impugnata.
Il comma 4 della legge regionale in argomento vieta per un periodo di 9 anni l'autorizzazione di nuove cave di sabbia e ghiaia. Tale norma disponendo un'aprioristica ed indiscriminata sospensione del rilascio dei suindicati titoli minerari, impedirebbe per un lasso di tempo non trascurabile sia l'avvio di nuove iniziative nello specifico settore estrattivo, sia l'esperimento delle procedure di valutazione di compatibilità correlate a progetti futuri, previste dall'art. 7 del decreto legislativo. N. 152/2006. In tal modo si determinerebbe un effetto sostanzialmente interdittivo rispetto alle attività di coltivazione di nuove cave di inerti, eludendosi perciò l'obbligo di ponderazione di ciascuna proposta progettuale, anche in relazione alle rispettive alternative praticabili, imposto dalla normativa in tema di VIA riconducibile alla potestà legislativa esclusiva statale ex art. 117, comma 2 Cost.
In proposito la Corte Costituzionale, "( … ) le discipline relative alla valutazione di impatto ambientale debbono essere ascritte alla materia della «tutela dell'ambiente» in ordine alla quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n. 67 e n. 1 del 2010, n. 234 e n. 225 del 2009)" (Corte Cost. n. 199/2014).
Il Giudice delle leggi ha già ritenuto l'illegittimità costituzionale, alla luce del dettato dell'art. 117, comma 2 Cost. e della disciplina comunitaria in materia ambientale, di norme regionali, che disponevano dell'efficacia di titoli minerari in assenza di procedure di valutazione di impatto ambientale, in base all'assunto che "(…) una siffatta disciplina potrebbe «mantenere inalterato lo status quo, sostanzialmente sine die, superando qualsiasi esigenza di "rimodulare" i provvedimenti autorizzatori in funzione delle modifiche subite, nel tempo, dal territorio e dall'ambiente» (sentenza n. 67 del 2010) , e sarebbe, quindi, «atta ad eludere l'osservanza nell'esercizio dell'attività di cava della normativa di VIA» (sentenza n. 246 del 2013) dettata dallo Stato in un àmbito riservato alla sua competenza legislativa esclusiva." Per le esposte motivazioni che le suindicate disposizioni dell'art. 95, comma 4, contrastano con il combinato disposto degli artt. 3, comma 1 e 41 della Costituzione, in quanto le limitazioni di carattere normativo all'iniziativa economica privata, ancorché astrattamente legittime, debbono perseguire finalità di utilità sociale, sicché esse non possono che essere informate ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Ciò premesso, il generalizzato novennale divieto di rilascio dei provvedimenti de quib, sebbene astrattamente volto ad un fine di utilità sociale, quali gli scopi di tutela dell'ambiente enumerati al comma 1 dell'art. 95 L.R. 30/2016, non può ritenersi conforme a ragionevolezza e proporzionalità, giacché esso impedisce in limine l'esame delle ricadute ambientali e delle specifiche soluzioni tecniche relative alle singole proposte progettuali, precludendo l'assunzione di misure proporzionate rispetto al concreto contenuto di ciascuna istanza di coltivazione mineraria.
La stessa Corte Costituzionale, investita della questione relativa all'asserita violazione del diritto alla libertà di iniziativa economica, "ha costantemente negato che sia «configurabile una lesione della libertà d'iniziativa economica allorché l'apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all'utilità sociale», purché, per un verso, l'individuazione di quest'ultima «non appaia arbitraria e che, per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue» (da ultimo, sentenza n. 167 del 2009)." (cfr. Corte Cost. sent. N. 152/2010).
Il comma 5 della legge regionale in epigrafe, pur consentendo l'ampliamento delle cave di sabbia e ghiaia non estinte, lo condiziona alla presenza di taluni requisiti essenziali, ivi compresi un limite massimo determinato a priori dei volumi complessivamente assentiti ai singoli operatori richiedenti (L.R n. 30/2016 ari 95, comma 5 lett. a), nonché una soglia massima prestabilita (dì validità almeno triennale) dei volumi estraibili in ampliamento per ciascuna Provincia (LR. N. 30/2016 art. 95.. Comma 5 lett. d). Si rileva che le limitazioni all'esercizio delle iniziative imprenditoriali, concernenti l'ampliamento di preesistenti cave di inerti, derivanti dall'applicazione dell'art. 95 l.r. 30/2016, collidono con la competenza esclusiva statale ex art. 117, comma 2 Cost. in materia di tutela della concorrenza.
Giova rammentare che "Com'è noto, infatti, la recente giurisprudenza costituzionale ha affermato che la nozione di concorrenza «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)».
L'art. 83 (Limitazione degli interventi sul fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale Spa).
In via preliminare, si osserva che, con l'art. 83 della legge regionale n. 30 del 30.12.2016 la regione Veneto autorizza la giunta regionale ad avviare le procedure per limitare nel territorio della regione Veneto l'intervento del fondo di cui all'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (di seguito FONDO DI GARANZIA) alla sola controgaranzia delle garanzie emesse dal fondo regionale costituito ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge regionale 13 agosto 2004, n. 19 e di quelle emesse dai consorzi garanzia fidi, aventi sede operativa in Veneto, ai sensi dell'articolo 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che la Conferenza Unificata di cui all'art. 8 del D.lgs. 281/97, possa individuare con apposita delibera, tenuto conto dell’esistenza di fondi regionali di garanzia, le regioni sul cui territorio il fondo limita il proprio intervento alla controgaranzia dei predetti fondi regionali e dei consorzi garanzia collettiva fidi di cui all'articolo 155, comma 4, del decreto legislativo 1°settembre 1993, n. 385. Le indicazioni procedurali per l'adozione della suddetta deliberazione da parte della Conferenza Unificata sono stati individuate nella seduta del 16.01.2001 con l'atto di repertorio n. 486 allo scopo di assicurare, tra l'altro, omogeneità nella valutazione dei sistemi di garanzia operanti a livello locale e parità di trattamento tra le PMI operanti sul territorio nazionale.
L'art. 2 del citato atto della Conferenza Unificata stabilisce che la regione interessata presenti apposita richiesta correlata da una relazione tecnica descrittiva delle caratteristiche del sistema di garanzia operante sul proprio territorio sulla cui base la Conferenza valuta l'adozione della deliberazione dì cui all'art. dell'articolo 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. Ciò premesso, va specificato, in ordine alla formulazione della previsione autorizzativa di cui al comma 1 dell'art. 83 della legge regionale in esame, che essa potrebbe presentare profili di criticità nella parte in cui circoscrive l'intervento del FONDO DI GARANZIA alle sole garanzie rilasciate dai confidi aventi sede operativa in Veneto. A tale proposito si segnalano alcune pronunce della Autorità garante della Concorrenza e del Mercato che, in casi analoghi, hanno evidenziato le conseguenze anticoncorrenziali derivanti dalla previsione per legge c/o per atto amministrativo attuativo di disposizioni di legge regionale, di vincoli a carattere territoriale imposti ai Confidi ai fini dell'accesso a contributi pubblici (AS732 del 19.07.2010, AS920 del 20.03.2012, AS 1090 del 28.10.2013). Più precisamente, con riguardo al requisito della sede legale nella regione, l'Autorità ha espresso una valutazione negativa in termini di impatto sulla concorrenza nel mercato di riferimento, limitando tale requisito, di fatto, all'accesso al mercato geografico di riferimento di confidi nuovi o attivi su altri territori. Tale valutazione negativa è ritenuta parimenti applicabile all'ipotesi in cui il requisito territoriale riguardi, come nel caso di specie, la sede operativa posto che essa rappresenta il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l'accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività del Confidi e dunque la sede commercialmente più attiva. Permarebbe, infatti, anche in quest'ultima ipotesi l'assenza di giustificazione e l'idoneità a produrre una compartimentazione a livello di mercato dei Confidi limitata agli ambiti regionali. Nelle dette pronunce l'Autorità oltre a porre l'accento sul potenziale pregiudizio alla concorrenza di tali requisiti territoriali ne evidenzia il contrasto con l'ordinamento comunitario e, in particolare, con gli obiettivi di liberalizzazione perseguiti dagli articoli 56 e 49 del TFUE disciplinanti rispettivamente la libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi.
E' con riferimento a tale questione che si sostiene che la norma è incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione che, com'è noto, impone il rispetto da parte del legislatore statale e di quello regionale dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario nonché degli obblighi internazionali e che ha rappresentato il riconoscimento a livello costituzionale del principio della preminenza del diritto comunitario sul diritto interno. La norma in esame dunque va impugnata a norma dell’articolo 127 della Costituzione. Più in generale, la Corte Costituzionale con riferimento a discriminazioni tra imprese effettuate sulla base di un mero elemento di localizzazione territoriale, ha ripetutamente sancito il contrasto delle medesime con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., nonché con la previsione dì cui l'art. 120, comma 1, Cost. secondo cui la regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le regioni né limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
Da tale ultimo principio, più volte ritenuto applicabile all'esercizio di attività professionali ed economiche, discende, secondo la Corte, il divieto per i legislatori regionali di frapporre barriere di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale, in difetto di una giustificazione ragionevole. La Consulta ha ritenuto, inoltre, che le norme in relazione alle quali e’ stata sollevata questione di legittimità costituzionale realizzino una ingiustificata discriminazione fra imprese sulla base di un elemento territoriale che contrasta con il principio di libera concorrenza di cui all'art. 41 della Costituzione a tenore del quale "l'iniziativa economica privata e’ libera e non può svolgersi in contrasto con 1'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".
L'applicazione del limite territoriale determinerebbe un trattamento differenziato ratione loci a danno dei soggetti non localizzati nel territorio regionale, in violazione del limite generale del rispetto della Costituzione nonché degli obblighi internazionali.
Inoltre, violerebbe il principio di parità di trattamento di situazioni identiche e della uniformità di disciplina e di trattamento nei confronti degli operatori economici su tutto il territorio nazionale.
Da ultimo, la Suprema Corte ha puntualizzato che le disposizioni contestate, introducendo criteri preferenziali per le imprese presenti nel territorio regionale, invaderebbero la competenza esclusiva statale in tema di tutela della concorrenza ex art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione.
L'articolo 111 della legge regionale in oggetto, in materia di impianti energetici e delle condizioni per l'autorizzazione di impianti energetici a biomassa, a biogas e gas di discarica e di processi di depurazione, si evidenzia quanto segue:
Le disposizioni di tale norma della legge regionale in esame sono riconducibili, ai sensi dell'art. 117, comma 3. Cost. alla potestà legislativa concorrente in materia di "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia". I cui principi fondamentali in materia di regimi autorizzativi sono contenuti nel d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'e!ettricità) e nel decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28 (attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili) (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 275/2012). I citati regimi abilitativi e i relativi procedimenti sono articolati nell'ambito delle linee guida nazionali di cui al decreto interministeriale 10 settembre 2010 (G.U. 18/8/2010 n. 219) in attuazione del comma 10 dell'articolo 12 del citato d.lgs. 387/2003 e richiamate nel d. lgs. 28/2011.
L'art. 12, comma 10, del d.lgs. 387/2003, stabilisce che tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le Regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti.
Ciò premesso, si fa presente quanto segue.
A) L'art. 111, comma 2, stabilisce le distanze minime degli impianti a biomassa, a biogas e gas di discarica e di processi di depurazione (di potenza superiore ai 1.000 e ai 3.000 kW) rispetto alle residenze civili sparse e concentrate. Tali disposizioni. Nella parte in cui impongono l'obbligo del rispetto di date distanze per la localizzazione degli impianti in questione. Appaiono incostituzionali per contrasto con l'art. 12, comma 10, del d.lgs. 387/2003 e con il paragrafo 1.2 delle citate linee guida. La normativa statale, come ha avuto modo di chiarire la Corte costituzionale con la sentenza n. 13/2014, consente alle Regioni solo di individuare «le aree e i siti non idonei» alla installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, ma non di porre limiti generali, valevoli sull'intero territorio regionale, specie nella forma di distanze minime, perché ciò contrasterebbe con il principio fondamentale di derivazione comunitaria di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili.
Ciò detto, non può tuttavia sottacersi che il comma 1 del medesimo art. 111 motiva l'adozione di dette misure "Al fine di contemperare il ricorso alluso di fonti energetiche rinnovabili con le esigenze di tutela della salute umana, omissis" e che il territorio della regione Veneto e’ compreso nell'area del Bacino padano dove più rilevanti sono i problemi di inquinamento dovuti al frequente superamento dei limiti delle concentrazioni di polveri sottili, rispetto ai quali gli impianti in questione possono indubitabilmente contribuire.
In conclusione, si ritiene che l'interesse pubblico alla massima diffusione degli impianti a fonte rinnovabile possa recedere di fronte alle prospettate esigenze di tutela della salute.
B)Lo stesso contemperamento non sembra invece possa essere fatto in relazione all'art. 111, commi 3, 4 e 5, i quali subordinano l'autorizzazione dei citati impianti alla loro conformità "alle disposizioni stabilite per gli elementi costituenti la rete ecologica, come individuata e disciplinata nei piani urbanistici approvati o adottati e in regime di salvaguardia" (comma 3, primo periodo) o, in assenza, "nei piani gerarchicamente sovraordinati" (comma 4) ovvero ancora "alle prescrizioni contenute negli elaborati di valutazione ambientale strategica e pareri connessi relativi al piano energetico regionale, al piano regionale di tutela e risanamento dell'atmosfera e, ove presenti, ai piani energetici comunali" (comma 5).
Tali disposizioni, ad eccezione della parte presente nel comma 5, che fa riferimento alle prescrizioni contenute negli elaborati di valutazione ambientale strategica e pareri connessi relativi "al piano regionale di tutela e risanamento dell'atmosfera", sembrano incostituzionali alla luce dell'art. 12, comma 10, del d. lgs. 387/2003 il quale stabilisce che in attuazione delle linee guida (poi emanate con il citato DM 10 settembre 2010) le Regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti. Le disposizioni regionali in esame. Ponendo generici vincoli alla localizzazione degli impianti a fonte rinnovabile, eludono la normativa di cui alle linee guida le quali stabiliscono che le Regioni e le Province autonome possono porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatorio o pianificativo per l'installazione di specifiche tipologie e impianti alimentati a fonti rinnovabili ed esclusivamente nell'ambito e con le modalità di cui al paragrafo 17 (punto 1.2). Il paragrafo 17.1 stabilisce che l'individuazione della non idoneità dell'area e’ operata dalle Regioni, nel rispetto dei criteri di cui all' allegato 3 delle medesime linee guida, attraverso un'apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell'ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, ecc che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie c/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione. L'allegato 3 stabilisce poi che l'area non idonea non può riguardare «porzioni significative del territorio o zone genericamente soggette a tutela dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, né tradursi nell'identificazione di fasce di rispetto di dimensioni non giustificate da specifiche e motivate esigenze di tutela». Gli esiti di tale istruttoria devono contenere in relazione a ciascuna area individuata come non idonea la descrizione delle incompatibilità riscontrate con gli obiettivi di protezione individuati nelle disposizioni esaminate. In base al paragrafo 17.2 le Regioni inoltre conciliano le politiche di tutela dell'ambiente e del paesaggio con quelle di sviluppo e valorizzazione delle energie rinnovabili attraverso atti di programmazione congruenti con la quota minima di produzione di energia da fonti rinnovabili loro assegnata (cd. Burden sharing di cui al DM 15 marzo 2012) assicurando uno sviluppo equilibrato delle diverse fonti. Le aree non idonee sono, dunque, individuate dalle Regioni nell'ambito dell'atto di programmazione con cui sono definite le misure e gli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi dì burden sharing.
La normativa regionale si pone dunque in contrasto con il descritto processo di individuazione delle aree non idonee che pone il principio di contemperamento delle esigenze di tutela ambientale, paesaggistici, ecc con le politiche di raggiungimento degli obiettivi di consumo di energia da fonte rinnovabile sul consumo lordo. L'assenza di qualsivoglia specifica valutazione da parte della regione è peraltro confermata dal comma 6 dell'art. 111 il quale prevede l'avvio di attività di studio per definire le (ulteriori) misure atte a garantire il rispetto delle esigenze pubbliche di tutela, prevenzione e preservazione.
Con riguardo al valore di norma interposta delle linee guida va ricordato che la Corte Costituzionale ha affermato che, in ambito tecnico (qual’e’ quello in cui ci troviamo) le linee guida costituiscono "il completamento del principio contenuto nella disposizione legislativa" e che in detto campo tecnico esse "vengono ad essere un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi (gli atti di formazione secondaria, ndr) affida il compito di individuare le specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica" (sentenza Corte Cost. n. 11 del 2014). In tal senso, i criteri tecnici per l'individuazione delle aree e siti non idonei alla installazione di impianti a fonte rinnovabile, specificamente delegati alle linee guida, rappresentano il completamento tecnico della normativa primaria che ad esse rinvia (cit. art. 12, comma 10, d.lgs. 387).
In più, la stessa normativa regionale dì cui al comma 5 contrasta con il paragrafo 14.5 delle citate linee guida in base al quale il superamento di eventuali limitazioni di tipo programmatico contenute nel Piano Energetico regionale o delle quote minime di incremento dell'energia elettrica da fonti rinnovabili non preclude l'avvio e la conclusione favorevole del procedimento di autorizzazione. Ciò in omaggio al principio di procedimentalizzazione in base al quale e’ nel procedimento amministrativo di autorizzazione che devono emergere le ragioni ostative alla realizzazione ed esercizio degli impianti FER.
C) L'art. 111, comma 7, della legge regionale in esame, stabilisce che "Sino all'entrata in vigore delle linee guida regionali di cui al comma 6, gli impianti energetici di cui al comma 1, e loro ampliamenti, possono essere autorizzati in zona agricola esclusivamente qualora richiesti dall'imprenditore agricolo a titolo principale". Si osserva che tale disposizione eccede la competenza della Regione in materia di "produzione. Trasporto e distribuzione nazionale dell'energia" di cui all'art. 117, comma 3, della Costituzione e ciò per contrasto con la normativa statale di principio in materia di fonti rinnovabili.
La disposizione regionale in parola contrasta infatti con i principi fondamentali di cui all'art. 1, comma 1, del d.lgs. 79/99 secondo cui l'attività di produzione di energia elettrica è libera nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico. Tale principio implica che a tale attività si accede in condizioni di uguaglianza, senza discriminazioni nelle modalità, condizioni e termini per il suo esercizio. Tale disposizione regionale, dunque, risulta affetta da incostituzionalità nella parte in cui consente, contrariamente a quanto previsto dalla normativa statale, soltanto a specifici soggetti (gli imprenditori agricoli a titolo principale) di poter essere eventualmente autorizzati a costruire gli impianti in parola in zone agricole. Tale disposizione contrasta quindi anche con l'art. 3 della Costituzione ponendo ingiustificata discriminazione tra soggetti che possono assumere l'iniziativa economica di produzione di energia.Per le considerazioni che precedono anche il comma 8 dell'art. 111 appare incostituzionale, in via derivata, laddove prevede che "La Giunta regionale è autorizzata ad emanare provvedimenti esplicativi e di indirizzo in merito all'applicazione delledisposizioni di cui al presente articolo".
Per quanto concerne il MEF Economia, si rileva quanto segue:
Art. 6, comma 5
la disposizione prevede che al personale addetto alle attività di polizia provinciale ricollocato presso la Regione sono garantite tutte le indennità e il trattamento economico già maturati e in godimento e sono conservate le qualifiche di cui sono titolari.
Al riguardo, si segnala che il mantenimento delle qualifiche previste per il personale regionale in questione non ricomprende la qualifica di agente di polizia giudiziaria.
Pertanto, la norma è in contrasto con l’art. 117, comma secondo, lett. h) Cost. per violazione della legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), e in particolare dell’articolo 5, tenuto conto che il vigente ordinamento non contempla che personale regionale possa svolgere le funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, così come previsto per il personale che svolge servizio di polizia municipale.
Art. 20
La disposizione aggiunge il comma 3-bis. all’articolo 12 della Legge regionale n. 37 del 2014 disponendo che ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza i dirigenti e dipendenti dell’Agenzia, mantengano l’iscrizione all’INPS Gestione Dipendenti Pubblici – ex Gestione INPDAP – ex Cassa Pensioni Dipendenti Enti Locali.
Al riguardo, si rileva che la materia è già regolamentata dalla normativa nazionale alla quale si fa rinvio, pertanto, la disposizione in esame si pone in contrasto con l’art. 117, comma secondo, lett. o), della Costituzione, che riserva la previdenza sociale alla competenza esclusiva dello Stato.
Art. 29, commi 3 e 4
Il comma 3 in esame prevede che in presenza di riorganizzazioni dell'area tecnico-amministrativa degli enti del servizio sanitario regionale derivanti dall’ istituzione dell’ “Azienda per il governo della sanità della Regione del Veneto - Azienda Zero” i fondi per la contrattazione integrativa del personale dirigenziale dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo sono permanentemente ridotti di un importo pari ai risparmi derivanti dalla diminuzione delle strutture complesse operata in attuazione di detti processi di riorganizzazione, anche laddove non abbiano comportato riduzione del personale in servizio. Il successivo comma 4 dispone che i risparmi conseguiti dagli enti del SSR, ai sensi del precedente comma, possono essere destinati in quota parte dalla Regione alla costituzione e integrazione dei fondi per la contrattazione integrativa del personale della predetta Azienda in relazione alla dotazione organica e delle funzioni alla stessa trasferite dagli enti del SSR.
Al riguardo, si osserva che le suddette previsioni non recano espressamente il riferimento al limite percentuale previsto, per detta tipologia di risparmi, dall’articolo 16, commi 4 e 5, del d.l. n. 98/2011, secondo cui le economie derivanti da spese di riordino e ristrutturazione amministrativa possono essere utilizzate annualmente nell’importo massimo del 50% per la contrattazione integrativa.
Pertanto, il suddetto comma 4 si pone in contrasto sia con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di coordinamento della finanza pubblica, sia con l’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile (contratti collettivi).
Art. 30, comma 1
La norma è finalizzata a riconoscere ai professori e ricercatori universitari, che svolgono attività assistenziale all’interno delle aziende ospedaliero-universitarie, un trattamento economico che garantisca l'equiparazione della retribuzione complessiva tra personale universitario e personale del Servizio sanitario nazionale, mediante l'attribuzione di un'eventuale indennità integrativa, a carico dell’ente del SSR, determinata nella misura necessaria ad assicurare al personale universitario un trattamento economico complessivo non inferiore a quello attribuito al personale del servizio sanitario nazionale di pari anzianità ed incarico.
Al riguardo si osserva che, diversamente da quanto stabilito nel comma in esame, l’art. 6 del d. lgs. 517/1997, superando le disposizioni recate dall’art 102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980 tese a garantire la predetta equiparazione economica tra personale universitario e personale del SSN, ha disposto che ai professori e ricercatori universitari, che svolgono attività assistenziale, oltre al trattamento economico a carico delle rispettive università, debbano essere corrisposti da parte del SSN:
1. un trattamento aggiuntivo graduato in relazione alle responsabilità connesse ai diversi tipi di incarico;
2. un trattamento aggiuntivo graduato in relazione ai risultati ottenuti nell'attività assistenziale e gestionale, valutati secondo parametri di efficacia, appropriatezza ed efficienza, nonché all'efficacia nella realizzazione della integrazione tra attività assistenziale, didattica e di ricerca;
3. ove spettanti, i compensi legati alle particolari condizioni di lavoro.
Detti emolumenti devono essere erogati nei limiti delle disponibilità del fondo di riferimento e, comunque, nei limiti delle risorse da attribuire ai sensi dell’articolo 102, comma 2, del DPR 382/1980.
Pertanto la disposizione in esame, disponendo in maniera difforme a quanto previsto dalla legislazione statale vigente relativamente ai trattamenti economici riguardanti i rapporti di lavoro del personale dipendente, è suscettibile di porsi in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile (contratti collettivi).
Inoltre, il comma in argomento, consentendo l’erogazione di compensi che potrebbero risultare superiori a quelli previsti dalla legislazione vigente, è suscettibile di determinare oneri per i quali la copertura indicata al comma 2 potrebbe non risultare idonea, con conseguente contrasto con l’art. 81 della Costituzione.
Art. 31, comma 1
la norma prevede che “i componenti del Collegio hanno diritto al rimborso delle sole spese vive e documentate, per effetto del loro trasferimento in diverse sedi aziendali nell'esercizio delle loro funzioni. Non sono previsti rimborsi per spese di vitto, alloggio e di viaggio per il trasferimento tra la residenza o domicilio del componente e la sede legale dell’Azienda Sanitaria.''.
Al riguardo, pur condividendo la ratio della norma, tesa alla riduzione dei costi degli apparati amministrativi e al contenimento delle spese per missioni, si evidenzia, tuttavia, che il rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze, in seno ai collegi sindacali delle aziende sanitarie, svolge il compito di controllo e vigilanza dei conti pubblici ed è, generalmente, un Dirigente (soggetto al regime retributivo della onnicomprensività) che soggiace alla disciplina primaria sul trattamento di missione dei pubblici dipendenti, regolata dall’art. 26 della legge 18 dicembre 1973, n. 836, e dalla legge 26 luglio 1978, n. 417 e successive modifiche ed integrazioni.
Detti compiti di vigilanza, attribuiti al Ministero Economia e Finanze, anche mediante l’operato dei propri rappresentanti in seno ai Collegi sindacali, sono regolati dalla legge n. 196/2009. In particolare, l’articolo 16 dispone che: “1. Al fine di dare attuazione alle prioritarie esigenze di controllo e di monitoraggio degli andamenti della finanza pubblica di cui all'articolo 14, funzionali alla tutela dell'unità economica della Repubblica, ove non già prevista dalla normativa vigente, è assicurata la presenza di un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze nei collegi di revisione o sindacali delle amministrazioni pubbliche, con esclusione degli enti e organismi pubblici territoriali e, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 3-ter, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, degli enti ed organismi da questi ultimi vigilati, fermo restando il numero dei revisori e dei componenti del collegio. 2. I collegi di cui al comma 1 devono riferire, nei verbali relativi alle verifiche effettuate, circa l'osservanza degli adempimenti previsti dalla presente legge e da direttive emanate dalle amministrazioni vigilanti”.
Tanto rappresentato, l'individuazione delle spese rimborsabili nelle “sole spese vive e documentate, per effetto del loro trasferimento in diverse sedi aziendali nell'esercizio delle loro funzioni” ai componenti del collegio dei revisori non permette l’assolvimento della primaria funzione di controllo della spesa pubblica e si evidenzia, altresì, che, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123, in capo al Ministero Econoia e Finanze sono attribuiti compiti di controllo di regolarità amministrativa e contabile, anche mediante l’attività dei Collegi di revisione e sindacali, al fine di assicurare la legittimità e proficuità della spesa. Sul punto, giova precisare, altresì, che, ai sensi dell’articolo 20 dello stesso decreto legislativo n. 123/2011, i Collegi di cui trattasi provvedono agli altri compiti ad essi demandati dalla normativa vigente, compreso il monitoraggio della spesa pubblica.
Inoltre, non può non evidenziarsi che la questione in rassegna compromette l’autonomia delle attività di vigilanza del collegio con particolare riguardo ai componenti fuori sede e stride anche in relazione alla partecipazione a tutte le attività di verifica pianificate dallo stesso organo di controllo, potendo far venire meno il principio di collegialità del collegio.
Pertanto, il contingentamento delle spese, così come regolato nella legge regionale in discorso, risulterebbe non solo in contrasto con le funzioni di controllo in capo al Ministero Economia e Finanze - tenendo altresì presente che, laddove il rappresentante stesso sia un dirigente delolo stesso, si applicherebbe l’onnicomprensività del trattamento retributivo, per cui non sarebbe destinatario del compenso previsto - ma è anche limitativo dell’attività connessa ai doveri e alle conseguenti responsabilità in capo ai Collegi sindacali, in tutti quei casi in cui le Amministrazioni, titolari del potere di designazione, optino, in base a valutazioni discrezionali, per un componente sindaco non residente nel luogo in cui ha sede l’ente.
Premesso quanto sopra, il comma 1 del predetto articolo si pone in contrasto con l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, segnatamente alla materia del coordinamento della finanza pubblica, ravvisandosi, nella sostanza, elementi di disarmonia con la normativa statale in materia di vigilanza e controllo sulla spesa pubblica.
Per le suesposte considerazioni si ritiene che sussistano i presupposti per l’impugnativa della legge regionale in parola dinanzi alla Corte Costituzionale.
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