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Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32 “Disciplina degliInterventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi”. (21-2-2017)
Veneto
Legge n.6 del 21-2-2017
n.21 del 24-2-2017
Politiche socio sanitarie e culturali
13-4-2017 /
Impugnata
La legge della regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 recante “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32 “Disciplina degli Interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi”, presenta profili di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 1, comma 1, per violazione degli artt. 3, 31, e 117, primo comma, della Costituzione.
L’art. 1, comma 1, della legge in esame, nel sostituire il comma 4 dell’art. 8 della legge regionale 23 aprile 1990, n. 32, stabilisce quanto segue:
“Hanno titolo di precedenza per l'ammissione all'asilo nido nel seguente ordine di priorità:
a) i bambini portatori di disabilità;
b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione."
La norma regionale in esame, prevedendo, alla lettera b), quale titolo di precedenza per l’ammissione dei bambini all’asilo nido, la residenza o lo svolgimento di attività lavorative dei loro genitori in Veneto per almeno quindici anni, introduce ai fini del riconoscimento di un beneficio sociale una disparità di trattamento tra cittadini residenti sul territorio regionale che viola il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, Cost., e contrasta altresì con la normativa europea in materia di libera circolazione dei cittadini dell’Unione e di parità di trattamento dei cittadini dei Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
Si premette che la materia oggetto di tale norma è quella dei servizi socio-educativi per la prima infanzia (0-3 anni), riconosciuti come “servizi sociali di interesse pubblico” dalla legge istitutiva dei nidi stessi (legge n. 1044 del 1971) e definiti dalla successiva legge n. 285 del 1997 quali “servizi socio educativi per la prima infanzia”. Pertanto, con riguardo al riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le regioni, la disciplina relativa alla gestione e all’organizzazione degli asili nido risulta demandato alla potestà legislativa delle Regioni, come sottolineato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 170 del 2005 e n. 370 del 2003.
Ciò premesso, la norma regionale in esame presenta i seguenti profili di illegittimità costituzionale.
a) Essa si pone innanzitutto in contrasto con i parametri costituzionali di cui all'articolo 3 della Costituzione in quanto, introducendo un elemento di distinzione arbitrario, rappresentato dalla durata minima (quindici anni) della residenza o dell’attività lavorativa all'interno della Regione del Veneto, comporta la violazione del principio di ragionevolezza e di uguaglianza, violando l'articolo 3 della Costituzione che sancisce la pari dignità e l’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione, fra l'altro, di sesso, razza, condizioni personali. La norma in esame appare parimenti in contrasto con l’articolo 31 della Costituzione, il quale prevede la protezione dell'infanzia da parte della Repubblica (favorendo gli istituti necessari a tale scopo).
Sulla incostituzionalità di leggi regionali che prevedono un requisito di residenza al fine dell'accesso ad un beneficio è già peraltro intervenuta la Corte Costituzionale affermando che, seppure un requisito di residenza possa essere in taluni casi considerato ragionevole perché indice del radicamento territoriale, la sua ammissibilità deve essere valutata di volta in volta a seconda del tipo di provvidenza attribuito, e "deve essere contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli” (cfr. Corte Cost. sentenza n. 222, n. 172 e n. 2 del 2013).
La Consulta ha infatti precisato che "al legislatore, sia statale che regionale, è consentito.... attuare una disciplina differenziata per l'accesso a prestazioni eccedenti i limiti dell'essenziale, al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse economiche...", ma "...la legittimità, in linea di principio, di tale finalità non esclude che i canoni selettivi adottati debbano rispondere al principio di ragionevolezza” (Corte costituzionale sentenza 14.1.2013, n. 4). Su tale punto la Corte costituzionale aveva già in precedenza affermato che "è consentito introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale, o, peggio, arbitraria" e che " lo scrutinio va operato all'interno della specifica disposizione, al fine di verificare se vi sia ragionevole correlazione tra la condizione prevista per l'ammissibilità al beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio" (sent. 432 del 2005).
Tali considerazioni possono esser fatte valere per la norma in esame. Infatti, come la stessa Corte ha affermato, il servizio fornito dall'asilo nido non si riduce ad una funzione di sostegno alle famiglie nella cura dei figli o di mero supporto per facilitare l'accesso dei genitori al lavoro, ma comprende anche finalità formative, essendo rivolto a favorire l'espressione delle potenzialità cognitive, affettive e relazionali del bambino... finalità di educazione e formazione peraltro confermate a livello normativo, essendo ora gli asili nido riconosciuti come strutture dirette a garantire la formazione e la socializzazione delle bambine e dei bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre anni ed a sostenere le famiglie e i genitori (Corte costituzionale n. 467 del 2002).
Alla luce di quanto sopra, non sembra vi sia alcuna logica correlazione tra la durata della residenza o della prestazione lavorativa nella Regione e la tutela degli interessi sopra evidenziati, non ravvisandosi una ragione costituzionalmente fondata perché tali interessi debbano essere protetti in modo preferenziale quando i genitori vantino i requisiti di residenza o di svolgimento dell'attività richiesti dalla norma, piuttosto che quando tali requisiti non siano presenti. Detti requisito appaiono infatti del tutto scollegati dalla tutela dell'interesse al sostegno delle famiglie nella cura dei figli e di supporto per facilitare l'accesso dei genitori al lavoro, interesse costituzionalmente protetto dall'art. 31 della carta costituzionale. La durata della pregressa residenza e del pregresso svolgimento dell'attività lavorativa nel territorio regionale, infatti, sembrano essere dei presupposti collegati più che all'interesse soddisfatto dall'erogazione del servizio (come, invece, nel caso di cui alla lettera a) della norma in esame, che stabilisce abbiano accesso preferenziale all'asilo nido "i bambini portatori di disabilità"), a requisiti premiali di "fedeltà" rispetto al collegamento con il territorio che introducono un'irragionevole disparità di trattamento tra cittadini tutti egualmente residenti nel territorio o che ivi ugualmente esercitano attività lavorativa.
b) La disposizione regionale in esame, che prevede l’obbligo di residenza ovvero di un’attività lavorativa in Regione per quindici anni, si pone inoltre in contrasto con la normativa europea in materia di libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari. La norma regionale costituisce infatti una misura restrittiva delle libertà di circolazione e di soggiorno garantite ai cittadini dell’Unione dall’art. 21, par. 1, del TFUE, in quanto il requisito preferenziale ivi previsto, richiedendo un periodo così prolungato, eccede quanto necessario al raggiungimento del legittimo obiettivo di accertare l’esistenza di un nesso reale tra il richiedente una prestazione e lo Stato membro competente, ovvero di preservare l’equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale mediante la previsione di un collegamento tra il richiedente il servizio e l’ente competente alla sua erogazione (vd. sentenza Stewart C-503/09, punti 89-95).
Inoltre, la previsione regionale in oggetto si pone in contrasto con l’articolo 19 del D.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, di recepimento (dell’art. 24) della direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. L’art. 24 di tale direttiva garantisce parità di trattamento ai cittadini di Stati membri che risiedano da più di tre mesi in un diverso Stato membro, nonché ai loro familiari anche non residenti, rispetto ai cittadini dello Stato ospitante, senza esigere alcun periodo pregresso di residenza a tal fine. Ciò implica che, nel caso di specie, verrebbero discriminati dalla normativa regionale tutti i cittadini dell’Unione che soggiornino in uno Stato membro ospitante da più di tre mesi o comunque che abbiano ottenuto il diritto di soggiorno permanente, non avendo però maturato 15 anni di residenza non continuativa o di lavoro continuativo in Veneto.
c) Un’altra categoria di soggetti che è discriminata dalla previsione di un requisito di residenza o di svolgimento di attività lavorativa sul territorio regionale per periodi così prolungati è quella dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, secondo quanto previsto dall’art. 11, paragrafo 1, lettera d) e f), della direttiva 2003/109/CE, recepita con D. lgs. 8 gennaio 2007, n. 3, trascorsi cinque anni di soggiorno regolare sull’intero territorio nazionale (non necessariamente tutti in un’unica regione), dovrebbero godere dello stesso trattamento dei cittadini nazionali sia per quanto riguarda “le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale”, sia per quanto riguarda “l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi”.
Dalla suddetta disposizione regionale, invece, scaturisce un effetto discriminatorio per quei soggiornanti di lungo periodo, residenti in Veneto, che abbiano trascorso parte del proprio soggiorno regolare quinquennale anche in altre regioni italiane, con conseguente violazione del principio di parità di trattamento previsto dalla direttiva 2003/109/CE tra questi soggiornanti di lungo periodo e i cittadini nazionali.
A conferma di quanto sostenuto alle lett b) e c), appare utile ricordare la sentenza n. 168 del 2014 della Corte costituzionale che, trattando una questione di legittimità costituzionale di una legge valdostana recante una disciplina analoga a quella in oggetto, ravvisava la violazione delle norme europee succitate. La Corte ha infatti affermato che un requisito di residenza, anche se previsto sia per gli italiani che per gli stranieri, è idoneo a creare una discriminazione indiretta o 'dissimulata' vietata dal diritto UE sia nei confronti dei cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea che hanno esercitato il diritto alla libera circolazione in quanto detto requisito sarebbe più difficile da soddisfare per loro rispetto ai cittadini nazionali, sia nei confronti dei cittadini di Stati terzi titolari dello status di lungo soggiornante, in quanto per tali soggetti il requisito di anzianità di residenza eccede temporalmente la durata di quello prescritto per l'accesso allo status (sul punto cfr. Corte Cost. sentenza n. 168 del 2014 che ha dichiarato incostituzionale l'art. 19, comma 1, lettera b) della L. Regione autonoma Valle d'Aosta 13 febbraio 2013 n. 3 per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui prevedeva, per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica, indipendentemente dalla nazionalità, il requisito della residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente).
Inoltre, la previsione della legge veneta è palesemente più grave di quella trattata dalla Corte Costituzionale con la suddetta pronuncia n. 168 del 2014 che (nello scrutinare la legge della Regione autonoma Valle d’Aosta n. 3/2013) prevedeva, per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica, indipendentemente dalla nazionalità, il requisito della residenza nella Regione da almeno otto anni, a fronte dei quindici anni (ancorché come titolo preferenziale, che però di fatto si risolve in un analogo ostacolo per la fruizione del servizio regionale) di pregressa residenza o svolgimento di attività lavorativa sul territorio veneto.
In aggiunta la legge regionale contrasta, altresì, con il Regolamento n. 492/2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione. L’articolo 10 del Regolamento tutela proprio le famiglie dei lavoratori, stabilendo che i figli del cittadino di uno Stato membro, occupato in un altro Stato membro, siano ammessi a frequentare corsi di insegnamento generale alle stesse condizioni previste per i cittadini di tale Stato, se i figli stessi vi risiedono. La norma regionale, pertanto, penalizza i figli di tutti quei lavoratori, cittadini dell’Unione, che abbiano svolto la propria attività lavorativa in Veneto per un periodo inferiore ai 15 anni consecutivi (oltre che, ovviamente, scoraggiare i lavoratori non veneti con prole a svolgere un’attività lavorativa in quella Regione).
La circostanza che la legge in esame disponga un requisito discriminatorio solo come regola di preferenza e non come requisito obbligatorio ai fini dell’ammissione negli asili nido regionali non rende meno grave la violazione della normativa europea, potendo facilmente portare all’esclusione dei soggetti citati. Infatti, in una situazione nella quale il numero dei posti disponibili è sempre inferiore al numero delle richieste, l'introduzione di un criterio preferenziale per l'accesso di alcuni implica automaticamente l'introduzione di un criterio selettivo, giacché il criterio preferenziale finisce per diventare un criterio di esclusione per quelle categorie che non rientrino nell'ambito delimitato dal primo. Né il fatto che gli interessi tutelati dal servizio di asilo nido non rientrino nella categoria dei c.d. "diritti fondamentali" esclude la necessita che l'introduzione di quel principio sia ragionevole e non irrazionale, come affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 432 del 2005. La legge rappresenta una misura sproporzionata che pone in essere un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini UE, a maggior ragione se lavoratori, che dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo i quali, pur godendo del diritto al pari trattamento, avrebbero di fatto minori possibilità di soddisfare il requisito preferenziale richiesto dalla normativa regionale.
La norma in esame contrasta inoltre con l'articolo 38 del decreto legislative n. 286 del 1998 (Testo unico sull'immigrazione), il quale stabilisce che ai minori presenti nel territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno, si applicano "tulle le disposizioni vigenti in materia (..) di accesso ai servizi educativi".
Si segnala inoltre che l'articolo 41 dello stesso Testo unico sull'immigrazione, con riferimento all'assistenza sociale, stabilisce che "1. Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti”.
Infine, con riferimento al principio di non discriminazione tra cittadini comunitari, l’articolo 43 prevede che "(..) costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica".
La stessa giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea ha chiarito, in varie occasioni, che, con riferimento al principio di non discriminazione tra cittadini comunitari, il requisito della residenza ai fini dell'accesso ad un beneficio sociale può integrare una forma di illecita discriminazione dissimulata o indiretta, in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini nazionali piuttosto che dai lavoratori migranti.
In conclusione, si ritiene che l’art. 1, comma 1, lett. b), della legge regionale veneta, nella parte in cui predilige per l’ammissione agli asili nido i figli dei genitori che soddisfino il requisito della residenza anagrafica o dello svolgimento di un’attività lavorativa sul territorio regionale da almeno 15 anni, sia suscettibile di impugnazione innanzi alla Corte Costituzionale per contrarietà agli artt. 3, 31 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione sia alla violazione dell’art. 21, paragrafo 1 del TFUE e dell’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE per illegittima restrizione della libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini dell’UE, e dei loro familiari; sia alla violazione dell’art. 10 del regolamento n. 492/2011, per illegittima restrizione della libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione; sia alla violazione dell’art. 11, paragrafo 1, lettere d) ed f) della direttiva 2003/109/CE, per mancato rispetto del principio di parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo; nonché per contrasto con gli artt. 38, 41 e 43 del d. lgs. n. 286 del 1998 (Testo unico sull’immigrazione); tutte restrizioni non proporzionate al raggiungimento del legittimo obiettivo di garantire un nesso reale tra il richiedente il servizio regionale e la Regione.
Per i motivi esposti la norma regionale sopra indicata deve essere impugnata dinanzi alla Corte Costituzionale, ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.
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