Dettaglio Legge Regionale

Nuova disciplina del Parco naturale regionale Sirente Velino e revisione dei confini. Modifiche alla l.r. 42/2011. (8-6-2021)
Abruzzo
Legge n.14 del 8-6-2021
n.115 del 9-6-2021
Politiche infrastrutturali
22-7-2021 / Impugnata
La legge regionale, che detta una nuova disciplina del Parco naturale regionale Sirente Velino, la revisione dei confini e modifiche alla l.r. 42/2011, è censurabile, con riferimento alle disposizioni contenute negli articoli 2 e 3 e 8 che, per le motivazioni di seguito indicate, eccedono dalle competenze regionali, in contrasto con la competenza esclusiva statale di cui all’articolo 117, secondo comma lettere g) h), l) ed s) della Costituzione, violando altresì gli articoli 3 e 97 Costituzione , l’art. 9 Cost, l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.,l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con riferimento ai parametri interposti costituiti dagli articoli 135, 142, comma 1, lettera f), 143, 145, 167 e 181 del d.lgs. N. 42 del 2004, nonché per violazione del principio di leale collaborazione.
A. Sotto il profilo della tutela ambientale :
Si premette che la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) è stata reiteratamente ricondotta dalla giurisprudenza costituzionale alla materia «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (da ultimo, sentenze n. 74 e n. 36 del 2017 Corte Cost.), ai cui principi fondamentali le Regioni sono tenute ad adeguarsi, pena l’invasione di un ambito materiale di esclusiva spettanza statale. Detta legge costituisce quindi parametro interposto in quanto espressione della competenza esclusiva dello Stato a porre standard uniformi di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema non derogabili in peius dalle regioni.
Ciò premesso, si rileva quanto segue.
1. L'articolo 2 della l.r. 42/2011 recante sostituzione dell'art. 2 della l.r. 42/2011, prevede che:
1. "Art. 2 (Ente Parco e confini)
1. “ I confini del Parco naturale regionale Sirente Velino sono individuati come da cartografia in scala 1:100.000 allegata alla presente legge (Allegato 1) e come da cartografia in scala 1:25.000 depositata presso il competente ufficio della Giunta regionale.
2. Il territorio dell'area del Parco comprende i seguenti comuni suddivisi in tre aree comprensoriali:
a) Area Subequana: Acciano, Castel di Ieri, Castelvecchio Subequo, Fagnano Alto, Fontecchio, Gagliano Aterno, Goriano Sicoli, Molina Aterno, Ocre, San Demetrio ne' Vestini, Secinaro, Tione degli Abruzzi;
b) Area Marsicana: Aielli, Celano, Cerchio, Collarmele, Magliano dei Marsi, Massa d'Albe, Pescina;
c) Area dell'Altopiano Sirente Velino: Ovindoli, Rocca di Mezzo e Rocca di Cambio.
3. Le designazioni di cui al comma 6 dell'articolo 11, lettera a), della l.r. 38/1996 sono effettuate garantendo la rappresentativita' di ogni area comprensoriale di cui al comma 2; a tal fine i delegati dei Comuni di ogni area designano i propri rappresentanti con votazioni separate, il cui esito e' ratificato con un'unica deliberazione della Comunita' del Parco.
4. La gestione del Parco, ai sensi dell'articolo 23 della l. 394/1991 e dell'articolo 11 della l.r. 38/1996, e' affidata all'Ente di diritto pubblico denominato Ente Parco Naturale Regionale Sirente Velino, di seguito denominato Ente Parco.
5. L'Ente Parco esercita la direzione e l'amministrazione del Parco ed attua le attivita' necessarie per il conseguimento delle finalita' di cui all'articolo 1."
Detta norma, nel disporre la riduzione del perimetro del Parco Regionale Sirente – Velino, oltre a discostarsi dagli obiettivi fissati dalla Strategia europea per la Biodiversità 2030 che richiede di individuare per ogni Stato membro una superfice protetta pari al 30% del territorio nazionale, di cui il 10% da considerare strettamente protetta, si pone in palese contrasto con l’art. 23 della legge 6 dicembre 199, n. 394, che espressamente recita:
«1. La legge regionale istitutiva del parco naturale regionale, tenuto conto del documento di indirizzo di cui all'articolo 22, comma 1, lettera a), definisce la perimetrazione provvisoria e le misure di salvaguardia, individua il soggetto per la gestione del parco e indica gli elementi del piano per il parco, di cui all'articolo 25, comma 1, nonché i principi del regolamento del parco.»
L’ivi richiamato art. 22, comma 1, lett. A) della legge n. 394 del 1991 prevede che «Costituiscono principi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali: a) la partecipazione delle province, delle comunità montane e dei comuni al procedimento di istituzione dell'area protetta, fatta salva l'attribuzione delle funzioni amministrative alle province, ai sensi dell'articolo 14 della legge 8 giugno 1990, n. 142. Tale partecipazione si realizza, tenuto conto dell'articolo 3 della stessa legge n. 142 del 1990, attraverso conferenze per la redazione di un documento di indirizzo relativo all'analisi territoriale dell'area da destinare a protezione, alla perimetrazione provvisoria, all'individuazione degli obiettivi da perseguire, alla valutazione degli effetti dell'istituzione dell'area protetta sul territorio»
Lo stesso art. 22, comma 1, della legge quadro alla lettera c), garantisce, altresì, agli enti locali la partecipazione alla gestione dell’area protetta, sicché essi non possono essere estromessi dal procedimento con cui si compie un atto di evidente rilievo gestionale strictu sensu considerato, qual è da considerarsi la variazione dei confini del parco.
Del resto, tale variazione non è stata affidata a modifiche del piano del parco, alle quali avrebbero potuto partecipare i rappresentanti degli enti locali, ma è avvenuta direttamente con legge, e deve perciò osservare il medesimo procedimento seguito dal legislatore ai fini della perimetrazione provvisoria dei confini, ai sensi dell’art. 22 della legge quadro, compresa la interlocuzione con le autonomie locali.
Vi è, inoltre, da segnalare che l'area di circa 6.400 ettari esclusa con la riperimetrazione configurata attraverso la legge regionale in esame, risulta formalmente riconosciuta quale Zona di Protezione Speciale, codice IT7110130 della Rete Natura2000 della UE in base a quanto disposto dalla Direttiva 147/92/CE e che il Parco regionale Sirente-Velino, per mezzo dello Stato italiano, risulta aver percepito cospicui finanziamenti dalla Commissione Europea al fine di tutelare l'Orso bruno oggetto dell'accordo PATOM (Accordo tra Pubbliche Amministrazioni per l’implementazione del Piano d’Azione per la tutela dell’Orso bruno marsicano).
Ben può rilevarsi, dunque, come la sancita esclusione di siffatta, estesa porzione di territorio dal Parco Regionale, debba essere ricondotta al rigoroso rispetto delle leggi nazionali ed eurounitarie di riferimento, tenuto conto che le misure di conservazione attualmente vigenti nelle aree della Rete Natura 2000 interessate dalla riperimetrazione avevano tenuto conto dei vincoli imposti dal Parco Regionale, con la conseguenza che, venendo meno questi ultimi, si rischierebbe di vedersi contestata, anche in sede comunitaria, l’inefficacia di dette misure di conservazione, con correlati riflessi anche sullo stesso accordo PATOM.
In una visione complessiva e di sistema degli impatti della norma e nella ipotizzabile riconducibilità della intervenuta riperimetrazione del Parco regionale alla nozione di “Piano”, si rilevano potenziali riflessi, in termini di contrasto, con l’art. 6, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 «in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica».
Quanto sopra, tenuto conto, per l’appunto, della ampia nozione di "piano" stessa recata dalla Direttiva 42/2001/CE sulla Valutazione Ambientale Strategica come recepita dal legislatore nazionale, in relazione alla quale la Commissione Europea è intervenuta più volte chiarendo, sulla base di una uniforme giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ("[…] in considerazione della finalità della direttiva 2001/42, consistente nel garantire un livello elevato di protezione dell'ambiente, le disposizioni che delimitano l'ambito di applicazione di tale direttiva, ed in special modo quelle che enunciano le definizioni degli atti ivi previsti, devono essere interpretate in senso ampio" sentenza C-567/10, punti 24-43).
La Valutazione Ambientale Strategica deve, dunque, essere prevista per tutte quelle decisioni che determinano effetti sulle modalità di uso di una determinata area, provocandone un sostanziale cambiamento.
A tal proposito, sul concetto di "piano", si richiamano i paragrafi 3.3, 3.4, 3.5 e 3.6 del documento della Commissione Europea "Attuazione della direttiva 2001/42/ce concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente", in cui, appunto, si chiarisce in maniera inequivocabile che "uno dei possibili parametri di valutazione può essere la misura in cui è probabile che un atto abbia effetti significativi sull’ambiente. Una possibile interpretazione è che i termini includano qualsiasi dichiarazione ufficiale che vada oltre le aspirazioni e stabilisca un corso di azione per il futuro" e, più avanti, "Ciò potrebbe includere, ad esempio, piani per la destinazione dei suoli che stabiliscano le modalità di riassetto del territorio o che fissino delle regole o un orientamento sul tipo di sviluppo che potrebbe essere appropriato o consentito in determinate aree o ancora che propongano i criteri da tenere in considerazione nel concepimento del nuovo progetto". Tra l'altro la VAS è ancora più rilevante nei procedimenti che hanno per oggetto la rete Natura 2000.
Sempre in tale ottica, a tale violazione si accompagnerebbe, altresì, quella, correlata, sulla mancata sottoposizione del provvedimento a Valutazione di Incidenza Ambientale di cui all'art. 6, comma 3, della Direttiva 43/92/CE, come recepito dall'art. 6, del d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120, che ha sostituito l'art. 5, del d.P.R. 8 Settembre 1997, n. 357, applicabile anche ai piani e ai programmi (anche in questo caso la Commissione Europea, a pag. 41 del documento "Gestione dei siti Natura 2000 - Guida all'interpretazione dell’articolo 6 della direttiva 92/43/CEE (direttiva Habitat)" osserva: "Di ovvia rilevanza a norma della direttiva Habitat sono i piani territoriali o di destinazione dei suoli. Alcuni di essi hanno effetti legali diretti per la destinazione d'uso dei terreni, altri invece soltanto indiretti. A titolo di esempio, i piani territoriali regionali o aventi un'ampia estensione geografica spesso non sono applicati direttamente, bensì costituiscono la base per piani più dettagliati o fungono da quadro generale per consensi allo sviluppo con effetti legali diretti. Entrambi i tipi di piani di destinazione dei suoli si dovrebbero considerare coperti dall'articolo 6, paragrafo 3, nella misura in cui possono avere effetti significativi su un sito Natura 2000.")
Ne consegue, dunque, che la Regione Abruzzo, attraverso un apposito screening di Valutazione di Incidenza Ambientale, avrebbe dovuto valutare quale effetto avrà il provvedimento sull'Orso bruno, presente nei siti SIC/ZPS (e anche esternamente ad essi, nelle aree oggetto appunto della riperimetrazione) limitrofi al territorio ora escluso dall'area protetta.
Sul punto va ribadito quanto già affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 38 del 2015, per cui “la disciplina della valutazione di incidenza ambientale (VINCA) sulle aree protette ai sensi di “Natura 2000”, contenuta nell’art. 5 del regolamento di cui al d.P.R. n. 357 del 1997, deve ritenersi ricompresa nella “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, rientrante nella competenza esclusiva statale, e si impone a pieno titolo, anche nei suoi decreti attuativi, nei confronti delle Regioni ordinarie”.

2. Ulteriori profili di illegittimità costituzionale si rinvengono con riferimento all’articolo 3, della legge regionale in esame, che nel sostituire i commi da 2 a 26 dell’art. 3 della l.r. 42/2011, si pone in contrasto con il parametro interposto statale di cui all’art. 24, comma 1, della legge quadro n. 394 del 1991, che sotto la rubrica, “Organizzazione amministrativa del parco naturale regionale”, prevede che:
«1. In relazione alla peculiarità di ciascuna area interessata, ciascun parco naturale regionale prevede, con apposito statuto, una differenziata forma organizzativa, indicando i criteri per la composizione del consiglio direttivo, la designazione del presidente e del direttore, i poteri del consiglio, del presidente e del direttore, la composizione e i poteri del collegio dei revisori dei conti e degli organi di consulenza tecnica e scientifica, le modalita' di convocazione e di funzionamento degli organi statutari, la costituzione della comunità del parco.»
Infatti, nella sua attuale formulazione l’art. 3 della legge regionale in esame assorbe in larga parte i contenuti dello statuto del Parco regionale, stabilendo direttamente i criteri per la composizione degli Organi del Parco, nonché i relativi poteri così sostanziando un’indebita spoliazione delle potestà regolamentari della comunità locale da parte del consiglio regionale, laddove tale regolamentazione deve essere demandata allo Statuto.
Ciò comporta, di conseguenza, l’inosservanza dei principi fondamentali in tema di disciplina delle aree naturali protette regionali, recati dalla legge quadro n. 394 del 1991, che all’art. 22, comma 1, lettera c), prevede «la partecipazione degli enti locali interessati alla gestione dell'area protetta;» i quali hanno, per l’appunto, la facoltà di stabilire la forma organizzativa dell’Ente Parco attraverso la redazione dello Statuto che, in analogia con quanto esplicitamente previsto per i Parchi nazionali all’art. 9, comma 8-bis e 9, della l. 394/91, «è deliberato dal consiglio direttivo, sentito il parere della Comunità del parco» e solo successivamente alla sua deliberazione può passare ad essere sottoposto a verifica di legittimità da parte della Regione, che può richiederne il riesame, attendere le controdeduzione dell’Ente ed infine adottare lo Statuto.
Quanto sopra, tenuto, altresì, conto che l’art. 24 della citata legge quadro conferisce competenza organizzativa alla fonte statutaria, perché essa permette di adeguare l’organizzazione del parco alle “peculiarità” del territorio.
Una disciplina uniforme, come quella contenuta nella norma impugnata, non è perciò idonea ad adattarsi alla specificità dell’area del parco, ponendo così a repentaglio lo standard minimo di tutela dell’ambiente prescritto dal legislatore statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., a cui deve conformarsi la potestà legislativa residuale della Regione in tema di organizzazione dei propri enti (cfr. in tal senso Sentenza Corte Cost. n. 134 del 2020).
Si ritiene opportuno, infine, richiamare al riguardo, stante la relativa attinenza, quanto sancito dalla stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 134 del 2020 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Liguria n. 3 del 2019, nella parte in cui modificava con legge regionale i confini dei parchi naturali regionali delle Alpi Liguri, dell’Antola, dell’Aveto e del Beigua.
A giudizio della Consulta, ognuna di queste variazioni, “non è stata affidata a modifiche del piano del parco, alle quali avrebbero potuto partecipare i rappresentanti degli enti locali, ma è avvenuta direttamente con legge, e deve perciò osservare il medesimo procedimento seguito dal legislatore ai fini della perimetrazione provvisoria dei confini, ai sensi dell’art. 22 della legge quadro, compresa la interlocuzione con le autonomie locali”.
Detto pronunciamento s’inserisce nel solco di quanto dalla stessa Corte affermato riguardo alla partecipazione degli enti locali, ritenuta necessaria e non surrogabile con forme alternative di coinvolgimento (sentenza n. 282 del 2000), in quanto esprimente, nell’attuale riparto delle competenze legislative, uno standard minimo inderogabile di tutela dell’ambiente, atto a garantire che sia acquisita al procedimento di istituzione e di soppressione di detti parchi la voce di chi rappresenta lo specifico territorio, i cui interessi sono in tal modo posti in rilievo.
Il mancato coinvolgimento degli enti locali, costituisce, quindi, un vizio della fase procedimentale, che si trasferisce alla legge provvedimento con cui essa è stata conclusa e di cui conosce la Corte (sentenze n. 2 del 2018; n. 241 del 2008; n. 311 del 1999).
Attraverso, dunque, i censurati articoli della legge 14/2021 (illegittimi per violazione dell’art. 117 Cost., comma 2, lett. S), (parametri interposti di costituzionalità gli artt. 23 e 24 della legge 6 dicembre 1991, n. 394) la Regione si pone nella direttiva di modificare d’imperio i confini del Parco naturale regionale Sirente Velino eludendo le previste procedure di revisione del piano del parco, attraendo così a sé interamente il governo delle aree protette, che viene sottratto agli Enti Parco previsti dalla legge statale n. 394/1991.
A chiusura di detta disamina valutativa, non può non evidenziarsi, con riferimento ai citati profili di illegittimità, che, come ripetutamente statuito dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 315 e n. 193 del 2010, n. 44, n, 269 e n. 325 del 2011, n. 14 del 2012, n. 212 del 2014 e n. 36 dcl 17 febbraio 2017), la disciplina delle aree protette rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente» ex art. 117, secondo comma, lettera s), ed è contenuta nella legge n. 394 del 1991 che detta i principi fondamentali della materia, ai quali la legislazione regionale è chiamata ad adeguarsi, assumendo anche i connotati di normativa interposta che deve considerarsi espressione, per l’appunto, dell'esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n. 44 del 2011, n. 315 e n. 20 del 2010).
Le Regioni, pertanto, in ambito di aree protette, possono soltanto determinare maggiori livelli di tutela, ma non derogare alla legislazione statale (Corte Cost. sentenze n. 44 del 2011, n. 193 del 2010, n. 61 del 2009 e n. 232 del 2008).
In particolare, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito come "il territorio dei parchi, siano essi nazionali o regionali, ben (possa) essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell'art. 117 Cost., purche' in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni" (Corte Cost., sentenze nn.rr. 232 del 2008, punto 5. del Considerato in diritto e 44 del 2011, gia' citata).
Nell’ambito, quindi, delle materie di loro competenza, le Regioni trovano un limite negli standard di tutela fissati a livello statale. Questi, tuttavia, non impediscono al legislatore regionale di adottare discipline normative che prescrivano livelli di tutela dell’ambiente più elevati (di recente, Corte Cost., sentenze n. 66 del 2018, n. 74 del 2017, n. 267 del 2016 e n. 149 del 2015), i quali «implicano logicamente il rispetto degli standard adeguati e uniformi fissati nelle leggi statali» (Corte Cost., sentenza n. 315 del 2010), che rappresentano, ex se, limiti invalicabili per l'attività legislativa della Regione, in quanto statuenti norme imperative che devono essere rispettate sull'intero territorio nazionale per primarie esigenze di tutela ambientale..
Come già sottolineato, la legge quadro n. 394 del 1991 è stata reiteratamente ricondotta dalla giurisprudenza costituzionale alla materia «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (da ultimo, sentenze n. 74 e n. 36 del 2017), da ciò derivandone, dunque, che le Regioni sono tenute ad adeguarsi ai principi fondamentali da essa dettati, pena l’invasione di un ambito materiale di esclusiva spettanza statale.
La stessa Corte Costituzionale ha altresì posto in evidenza come lo standard minimo uniforme di tutela nazionale si estrinsechi nella predisposizione da parte degli enti gestori delle aree protette «di strumenti organizzativi, programmatici e gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte nei parchi alle esigenze di protezione» dell’ambiente e dell’ecosistema (sentenza n. 171 del 2012; nello stesso senso, le sentenze n. 74 del 2017, n. 263 e n. 44 del 2011, n. 387 del 2008).
La più volte menzionata n. 394 del 1991 non si limita, dunque, a dettare standard minimi uniformi finalizzati a tutelare soltanto i parchi e le riserve naturali nazionali e regionali – istituiti ai sensi dell’art. 8 della legge quadro (rispettivamente, con decreto del Presidente della Repubblica e con decreto del Ministro dell’ambiente) – ma impone anche un nucleo minimo di tutela del patrimonio ambientale rappresentato dai parchi e dalle riserve naturali regionali, che vincola il legislatore regionale nell’ambito delle proprie competenze (sentenze n. 74 e n. 36 del 2017, n. 212 del 2014, n. 171 del 2012, n. 325, n. 70 e n. 44 del 2011).
Anche in relazione alle aree protette regionali, invero, il legislatore statale, pur riconoscendo che il parco regionale resta «tipica espressione dell’autonomia regionale» (sentenza n. 108 del 2005), e che esso «ben può essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni» (sentenza n. 44 del 2011), ha predisposto un modello fondato sull’individuazione del loro soggetto gestore, ad opera della legge regionale istitutiva (art. 23), sull’adozione, «secondo criteri stabiliti con legge regionale in conformità ai principi di cui all’articolo 11, di regolamenti delle aree protette» (art. 22, comma 1, lettera d, peraltro significativamente ed espressamente ricompreso tra i «princìpi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali»), nonché su un modello organizzativo tramite il quale siano attivate le finalità del parco naturale regionale (art. 24).Per altro verso, può senz’altro riconoscersi che il legislatore statale ha previsto, per le aree naturali protette regionali, un quadro normativo meno dettagliato di quello predisposto per le aree naturali protette nazionali, tale che le Regioni abbiano un qualche margine di discrezionalità tanto in relazione alla disciplina delle stesse aree protette regionali quanto sul contemperamento tra la protezione di queste ultime e altri interessi meritevoli di tutela da parte del legislatore regionale.
Ciò non toglie che debba essere, comunque, garantita la conforme corrispondenza ai canoni inderogabili imposti dalla normativa nazionale, essendo manifestazione di quello standard minimo di tutela che il legislatore statale ha individuato nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e che, come dianzi già posto in rilievo, le Regioni possono accompagnare con un surplus di tutela, ma non, appunto, derogare in peius.

B. Sotto il progilo della tutela paesaggistica:
L’articolo 2 della legge in esame presenta ulteriori aspetti di illegittimità costituzionale. Come detto la nuova perimetrazione del Parco Sirente Velino risultante dall’Allegato 1 modifica, riducendoli in maniera rilevante, i confini del Parco così come individuati con l’atto di istituzione del Parco stesso (legge regionale n. 54 del 1989) e dal Piano Regionale Paesistico ad oggi vigente (approvato con delibera regionale n. 141/21 del 21 marzo 1990).
Per effetto della revisione in senso riduttivo dei confini, effettuata dall’art. 2 della legge regionale in esame, parte dei territori dei Comuni prima ricompresi nel Parco vengono sottratti sia alla tutela naturalistica quali aree protette, che alla correlata tutela paesaggistica, quest’ultima imposta ex lege sulle medesime aree, ai sensi dell’articolo 142, comma 1, lett. F), del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. Si tratta, ad esempio, del comune di Fagnano Alto e dei pregevoli centri del comune di Acciano, nonché del centro storico di Gagliano Aterno, che sarà completamente sprovvisto di strumenti di tutela.
La scelta regionale risulta completamente immotivata e gravemente penalizzante per la tutela del paesaggio, che ha mantenuto nel tempo intatta la propria rilevante valenza ambientale ed estetica, apparendo fortemente rinaturalizzato dal bosco e contraddistinto da centri storici con caratteri di grande pregio, pur se notevolmente danneggiati a causa del sisma del 2009 e quasi disabitati.
Come anticipato, l’art. 142, comma 1, lettera f), del Codice dei beni culturali e del paesaggio contempla, tra le categorie di beni tutelati paesaggisticamente per legge, “i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi”, già riconosciuti meritevoli di tutela ope legis dalla legge n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso), in quanto considerate “comunque di interesse paesaggistico” e perciò sottoposte alla normativa di tutela. Il contesto naturalistico-ambientale di spiccato rilievo paesaggistico, costituito dal Parco Naturale Regionale del Sirente-Velino, è quindi integralmente tutelato ope legis anche dal punto di vista paesaggistico, oltre che dal punto di vista naturalistico, da oltre trent’anni. Alcune porzioni dello stesso contesto sono tutelate paesaggisticamente anche in base alle lettere d), c) e g) dell’art. 142, comma 1, del Codice. Sono inoltre presenti aree tutelate con decreto ministeriale (D.M. 21/6/85 Gole di San Venanzio e D.M. 21/6/85 Monte Sirente). Il perimetro originario del Parco è, pertanto, riportato come “Parco esistente” nel Piano Paesistico Regionale (PPR) vigente, approvato con atto del Consiglio Regionale 141/21 del 1990, così come nello strumento adottato nel 2004, e nel redigendo Piano paesaggistico, per il quale è prevista la copianificazione con il Ministero della cultura, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Il Codice prevede che le aree tutelate per legge siano necessariamente comprese nell’elaborazione del Piano paesaggistico (art. 143, comma 1, lettera c), e siano oggetto di co-pianificazione obbligatoria tra lo Stato e le Regioni (art. 135).
Al riguardo, si precisa che, benché l’attività di co-pianificazione non abbia ancora condotto alla definitiva approvazione del Piano paesaggistico regionale ai sensi del Codice, sono tuttora pienamente validi ed efficaci gli accordi tra la Regione Abruzzo e il Ministero della Cultura oggetto dell’Intesa sottoscritta nel 2009 e del disciplinare aggiornato, sottoscritto in data 8 giugno 2016. Tali accordi si riferiscono a tutto il territorio regionale. Si rileva invece che l’iter di elaborazione e approvazione della legge in esame non ha previsto alcun coinvolgimento degli Uffici territoriali di detto Ministero e, pertanto, costituisce una scelta unilaterale della Regione Abruzzo su una materia che, tuttavia, riguarda l’attività di co-pianificazione paesaggistica obbligatoria.
La modifica unilaterale dei confini del Parco regionale in senso riduttivo da parte della Regione, è costituzionalmente illegittima in quanto un’ampia parte del territorio regionale, pur mantenendo invariati i caratteri di pregio riconosciuti da oltre trent’anni, viene esclusa dal perimetro del Parco naturale e, conseguentemente, sottratta alla tutela naturalistica e a quella paesaggistica.
Seppure alle Regioni sia consentito legittimamente modificare i confini dei parchi regionali con propria legge come di recente affermato dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto legittimo l’ampliamento del Parco regionale dell’Appia Antica da parte della Regione Lazio con la legge regionale n. 7 del 2018 (sentenza n. 276 del 2020), seve tuttavia rimarcarsi che in tal caso si trattava di un ampliamento dei confini del Parco, e conseguentemente, di ampliamento del relativo vincolo paesaggistico, attività che appare conforme alla costante giurisprudenza della Corte che riconosce alle Regioni, in materia ambientale, la potestà di dettare leggi volte unicamente a incrementare il livello della tutela, e non certo a ridurlo. La Corte ha, inoltre, riconosciuto alle Regioni un ruolo integrativo e concorrente, meramente aggiuntivo e non sostitutivo, della potestà statale in materia di tutela dei beni culturali (cfr. sentenza Corte cost. n. 194 del 2013); ruolo da ritenersi analogamente predicabile anche in materia di tutela del paesaggio, ove le Regioni esercitano le specifiche competenze amministrative alle stesse attribuite dal Codice.
Con la legge in esame, la Regione Abruzzo ha quindi ecceduto i limiti propri dell’autonomia regionale, come delimitati dalle pronunce della Corte (da ultimo, cfr. sentenza n. 134 del 2020, nella quale si afferma: “Questa Corte ha infatti ripetutamente ricondotto all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. la disciplina ambientale dei parchi (da ultimo, sentenze n. 290 del 2019; n. 121 del 2018), pur riconoscendo che il parco regionale resta «tipica espressione dell’autonomia regionale»
(sentenza n. 108 del 2005), e che esso «ben può essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni» (sentenza n. 44 del 2011)”.
In relazione ai singoli profili di illegittimità costituzionale, si evidenzia quanto segue.
1. L’art. 2 della legge regionale si pone anzitutto in frontale contrasto con l’art. 142, comma 1, lettera f), del Codice dei beni culturali e del paesaggio , che sottopone a tutela paesaggistica per legge i territori dei parchi e delle riserve, nonché le fasce di protezione esterna dei parchi, in ragione del valore paesaggistico intrinseco che tali aree presentano per le loro caratteristiche morfologiche e ubicazionali. La norma regionale, riducendo notevolmente i confini del Parco, inteso quale bene paesaggistico, viene a sottrarre alla tutela paesaggistica ampie porzioni di territorio, oggi tutelate in forza della legge nazionale.
La Corte costituzionale ha già riconosciuto la illegittimità di disposizioni regionali che miravano, sostanzialmente, alla rimozione di vincoli paesaggistici ope legis, mediante “sottrazione” del territorio regionale alla categoria prevista dal legislatore statale (ci si riferisce alla sentenza n. 210 del 2014 che ha dichiarato illegittimo l’art. 1 della legge della Regione autonoma Sardegna 2 agosto 2013, n. 19, il quale privava il sistema di tutela del paesaggio e dell’ambiente del presidio costituito dagli usi civici in tal modo direttamente incidendo, invadendola, la competenza esclusiva dello Stato in materia). In tale occasione la Corte ha rimarcato che “La coesistenza dei due ambiti competenziali impone la ricerca di un modello procedimentale che permetta la conciliazione degli interessi che sono ad essi sottesi” (sentenza n. 210 del 2014). Secondo la Corte, in tali casi, lo strumento del piano paesaggistico si rivela inadeguato, in quanto “la tutela dell’interesse ambientale esige l’anticipazione dell’intervento statale alla fase della formazione del piano di accertamento straordinario previsto dalla disposizione regionale censurata”, fase che nel caso in esame coincide con l’iter regionale che ha portato alla riduzione dei confini del Parco, quale presupposto amministrativo su cui poggia il vincolo paesaggistico.
La Corte ha infatti affermato che “La necessità di tale anticipazione deriva dalla stessa natura del bene protetto. Gli usi civici infatti, analogamente ad altre fattispecie quali le università agrarie, i parchi e le riserve, non trovano la loro fonte nel dato puramente geografico, oggetto di mera rilevazione nel piano paesaggistico (come accade, ad esempio, per le fasce di rispetto), bensì in precedenti atti amministrativi,cosicché è in questa fase a monte che si consuma la scelta ambientale. (…) D’altra parte l’eventuale apposizione di un diverso vincolo non è in grado di assicurare una tutela equivalente, poiché in questo caso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche ambientali richiede non una disciplina meramente “passiva”, fondata su limiti e divieti, ma un intervento attivo, e cioè la cura assidua della conservazione dei caratteri che rendono il bene di interesse ambientale”.
Conclude pertanto la Corte: “In tale prospettiva, deve concludersi che per una efficace tutela del paesaggio e dell’ambiente non è sufficiente un intervento successivo alla soppressione degli usi civici: occorre al contrario garantire che lo Stato possa far valere gli interessi di cui è portatore sin nella formazione del piano straordinario di accertamento demaniale, concorrendo a verificare se sussistano o meno le condizioni per la loro stessa conservazione, ferme restando le regole nazionali inerenti al loro regime giuridico e alle relative forme di tutela”.
Anche più recentemente, la Corte ha annullato una disposizione regionale che, modificando una precedente legge regionale che aveva introdotto un vincolo “ha surrettiziamente aggirato il vincolo posto dalla norma interposta costituita dall’art. 142, comma 1, lettera g), del d.lgs. N. 42 del 2004” (sentenza n. 141 del 2021).
La norma regionale, pertanto, riducendo i confini del Parco regionale, i cui territori sono tutelati ope legis dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ha pertanto violato la norma statale che sottopone a tutela paesaggistica ope legis il territorio dei parchi, anche regionali, in quanto, operando autonomamente e senza il coinvolgimento dello Stato, ha sottratto parte del territorio regionale, contraddistinto per i suoi caratteri di pregio naturalistico-ambientale, alla tutela paesaggistica ope legis.
2. La scelta del legislatore regionale appare contraria anche al principio di co-pianificazione obbligatoria imposto dal Codice con riferimento alle aree tutelate per legge, oltre che agli altri beni paesaggistici (articoli 135, 143 e 145), e quindi lesiva delle competenze primarie in materia di tutela del paesaggio riconosciute allo Stato in via esclusiva dall’art. 117, secondo comma, lettera s) Cost.
Appare evidente, infatti, che il legislatore regionale è intervenuto unilateralmente a modificare il bene paesaggistico “Parco Naturale regionale Sirente Velino”, già confluito nel Piano paesaggistico regionale, elaborato dalla Regione ai sensi della normativa c.d. Galasso, nonché nel nuovo Piano paesaggistico in corso di elaborazione con lo Stato e oggetto di co-pianificazione obbligatoria.
La Regione è pertanto intervenuta al di fuori del quadro necessario della pianificazione paesaggistica, nel quale oggi è confluito il bene paesaggistico de quo.
Solo al Piano paesaggistico, elaborato congiuntamente con lo Stato quanto meno con riferimento ai beni paesaggistici, spetta infatti la ricognizione dei beni paesaggistici e l’elaborazione delle relative prescrizioni d’uso, nonché l’individuazione della tipologia delle trasformazioni compatibili, di quelle vietate e delle condizioni delle eventuali trasformazioni. Il legislatore nazionale, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha infatti assegnato al Piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice sanciscono pertanto l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l’immediata prevalenza del Piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).
Si tratta di una scelta di principio la cui validità e importanza è già stata affermata più volte dalla Corte costituzionale, che ha da tempo affermato l’esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del Piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009). La Corte ha infatti riconosciuto la prevalenza dell’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, rimarcando che: “Come questa Corte ha avuto modo di affermare anche di recente con la sentenza n. 367 del 2007, sul territorio vengono a gravare più interessi pubblici: da un lato, quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.; dall’altro, quelli riguardanti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati, in virtù del terzo comma dello stesso art. 117, alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. In definitiva, si «tratta di due tipi di tutela, che ben possono essere coordinati fra loro, ma che debbono necessariamente restare distinti» (così la citata sentenza n. 367 del 2007). Ne consegue, sul piano del riparto di competenze tra Stato e Regione in materia di paesaggio, la «separatezza tra pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall’altro», prevalendo, comunque, «l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica» (sentenza n. 182 del 2006). E’ in siffatta più ampia prospettiva che, dunque,
si colloca il principio della “gerarchia” degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, espresso dall’art. 145 del d.lgs. N. 42 del 2004” (sentenza n. 180 del 2008).
La norma regionale è illegittima quindi anche sotto questo profilo, in quanto determina una vistosa deroga, se non addirittura un pieno contrasto, al principio della necessaria prevalenza della pianificazione paesaggistica rispetto a ogni altro piano, programma o progetto nazionale o regionale (cfr. art. 145, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio).
3.La scelta regionale appare anche contraria al principio di irrevocabilità dei vincoli paesaggistici accolto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Occorre infatti evidenziare che la natura meramente accertativa del vincolo paesaggistico, in conseguenza del cui riconoscimento trova applicazione il regime di tutela, fa sì che una volta riconosciuto l’interesse paesaggistico del bene lo stesso non possa essere revocato, neppure mediante contrarius actus.
Tale irrevocabilità discende, secondo i principi, dalla natura meramente ricognitiva dei vincoli paesaggistici, affermata dalla Corte fin dalla sentenza n. 56 del 1968, in quanto i “beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico e l’Amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente, ma acclara la corrispondenza delle sue qualità alla prescrizione normativa”.
A maggior ragione, l’accertamento di un interesse pubblico “immanente al bene” si verifica se l’individuazione dei beni paesaggistici, anziché essere compiuta dall’amministrazione mediante puntuali provvedimenti amministrativi, è effettuata dallo stesso legislatore, mediante l’indicazione di specifiche categorie di beni, i quali sono quindi ritenuti originariamente di interesse paesaggistico. Se l’individuazione del bene paesaggistico è sufficiente a svelarne la natura intrinseca di interesse pubblico, detta natura non può pertanto venire meno per effetto della revoca della fonte del vincolo, sia essa un provvedimento amministrativo o una norma primaria o anche una disposizione del piano paesaggistico.
Tale principio, direttamente discendente dall’art. 9 della Costituzione, è accolto nel Codice dei beni culturale e del paesaggio, che non ha riprodotto l’art. 14 del vecchio regolamento di cui al r.d. 1357 del 1940, da considerarsi implicitamente abrogato, che prevedeva il potere ministeriale, sentita la Commissione provinciale, di “togliere o restringere il vincolo (…) quando siano venute a mancare o a mutare le esigenze che lo avevano determinato”.
Il Codice infatti nega persino al piano paesaggistico, benché elaborato congiuntamente e condiviso con specifico accordo procedimentale tra Regione e Stato il potere di rimuovere o ridurre vincoli paesaggistici preesistenti (cfr. art. 140, comma 2). La disposizione si riferisce ai vincoli provvedimentali, in quanto non potrebbe nemmeno in via ipotetica dubitarsi che il piano possa revocare vincoli imposti dallo stesso legislatore. La disciplina di tutela paesaggistica ha accentuato, rispetto alle originarie disposizioni della leggen. 1497 del 1939, una logica, per così dire “incrementale”, secondo la quale i vincoli possono essere estesi e integrati nei contenuti precettivi, e non perdono efficacia né devono essere sottoposti a forme di revisione o conferma, ma non possono venire meno una volta imposti, salvi i casi eccezionali nei quali sia definitivamente perduto l’elemento materiale nel quale si esprime il valore paesaggistico meritevole di tutela.
Tali conclusioni, peraltro, sono pacificamente accolte dal Giudice amministrativo, che, con riferimento ai boschi, anche recentemente ha ribadito “L’art. 142, comma 1, lettera g) del d.lgs. N. 42/2004 ha individuato i territori coperti da boschi fra i beni paesaggistici tutelati per legge, con previsione meramente ricognitiva. Ne consegue, dunque, che i boschi costituiscono un bene paesaggistico sottoposto a tutela diretta dalla legge con vincoli che gli strumenti di pianificazione regionale devono recepire, non soggetti a decadenza, perché traggono origine dalle caratteristiche dell’area, il cui valore paesaggistico impone limitazioni all’esercizio delle facoltà di uso della stessa, rispetto alle quali non solo l’intervento dell’Amministrazione, ma anche quello del legislatore, assume valenza, come detto, ricognitiva e non costitutiva derivante dalla qualità intrinseche del bene tutelato” (Consiglio di Stato, sentenza n. 6921 del 2018).
Si sottolinea che il legislatore statale ha espressamente sancito, nel Testo unico delle foreste di cui al d.lgs. N. 34 del 2017, il divieto di diminuzione del livello di tutela stabilito dal legislatore, in diretta applicazione dell’articolo 9 della Costituzione, conformando la funzione integrativa regionale in senso (solo) ampliativo della tutela.
Analogamente, in materia di usi civici, il legislatore statale è intervenuto in occasione della legge n. 168 del 2017 concernente i domini collettivi precisando, riguardo al vincolo paesaggistico, che “Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici” (cfr. art. 3, comma 6), con ciò sancendo il principio in base al quale il vincolo paesaggistico gravante sull’uso civico non si può considerare estinto in virtù dei provvedimenti di sclassificazione, che hanno, in ogni caso, riguardo a interessi diversi dalla tutela del paesaggio.
Poiché con riferimento alla categoria di beni di cui alla lettera f) dell’art. 142, comma 1, del Codice, tale principio non risulta esplicitato, la Regione, intervenendo sui confini del Parco in senso riduttivo, consegue l’effetto di ridurre illegittimamente il vincolo paesaggistico, in contrasto anche con il richiamato principio di irrevocabilità del vincolo paesaggistico.
4. La normativa regionale, riducendo i confini del Parco regionale, appare anche contraria all’articolo 9 della Costituzione, in quanto comporta un abbassamento dei livelli di tutela. La Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 151 del 1985, ha evidenziato come il legislatore, con il decreto-legge n. 312 del 1985 e con la legge di conversione n. 431 del 1985, abbia proceduto all’individuazione di porzioni e di elementi del territorio stesso “secondo tipologie paesistiche ubicazionali o morfologiche rispondenti a criteri largamente diffusi e consolidati nel lungo tempo”, introducendo “una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell’intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale”. La Corte, in tale occasione, ha sancito la piena legittimità della scelta del legislatore statale, chiarendo come “Una tutela così concepita è aderente al precetto dell’art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell’ordinamento, assume il detto valore come primario (cfr. sentenze di questa Corte n. 94 del 1985 e n. 359 del 1985), cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro”.
Appare evidente quindi che l’operazione “inversa” compiuta dalla Regione, nel senso di espungere dal Parco parte del territorio regionale prima ricompreso all’interno del suo perimetro e quindi (prima) nteramente soggetto al vincolo paesaggistico ope legis, è lesiva anche dell’art. 9 Cost, che eleva il paesaggio al rango di valore “primario e assoluto” (sentenza Corte cost. n. 367 del 2007).
5. La norma regionale appare anche contraria ai principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione. La Regione ha infatti ridotto i confini del Parco, sottraendo parte dei territori alla tutela paesaggistica ope legis, senza che tale abrogazione sia giustificata dal contemperamento con altri interessi costituzionalmente protetti, eventualmente coinvolti e considerati prevalenti. Risulta, anzi, che i territori ora esclusi dal Parco abbiano conservato nell’ultimo trentennio le caratteristiche che avevano a suo tempo sorretto la sottoposizione alla tutela naturalistica e, conseguentemente, anche a quella paesaggistica.
La Corte costituzionale ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di normative regionali che intervengono retroattivamente su disposizioni precedenti al solo fine di sottrarre al regime di tutela
categorie di beni precedentemente vincolati (ci si riferisce al caso delle zone umide della Sardegna, su cui cfr. sentenza Corte cost. n. 308 del 2013).
In tale occasione la Corte ha ritenuto, tra l’altro, che “… la volontà del legislatore deve ravvisarsi, alla luce di quanto statuito nella legge regionale n. 8 del 2004 e nelle relative norme del cosiddetto Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. N. 42 del 2004, nella volontà di assicurare un’adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio, in primo luogo attraverso lo strumento del Piano paesistico regionale (art. 1 della legge regionale n. 8 del 2004; art. 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio). L’effetto prodotto dalla norma regionale impugnata, all’opposto, risulta essere quello di una riduzione dell’ambito di protezione riferita ad una categoria di beni paesaggistici, le zone umide, senza che ciò sia imposto dal necessario soddisfacimento di preminenti interessi costituzionali. E ciò, peraltro, in violazione di quei limiti che la giurisprudenza costituzionale ha ravvisato alla portata retroattiva delle leggi, con particolare riferimento al rispetto delle funzioni riservate al potere giudiziario. Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 20 del 2012”.
A ciò deve aggiungersi che l’eliminazione del vincolo paesaggistico determina effetti manifestamente arbitrari e irragionevoli, in quanto comporta un ingiustificato abbassamento del livello della tutela del paesaggio. Anche a voler ammettere che un vincolo paesaggistico già imposto possa venire meno, dovrebbe quanto meno ritenersi che l’eliminazione del vincolo debba essere giustificata da una ponderazione di interessi che faccia emergere un altro valore costituzionale primario meritevole di prevalere su quello paesaggistico. Nulla di simile si rinviene nella legge regionale in esame, la quale pone nel nulla vincoli paesaggistici imposti da oltre trent’anni, sottraendo parte dei territori comunali dal perimetro del Parco, in costanza del valore naturalistico-ambientale riconosciuto dal legislatore meritevole di tutela naturalistica, oltre che paesaggistica ope legis, e senza che emerga alcuna finalità di tutela di altri interessi meritevoli di tutela prevalente.
Ulteriore profilo di irragionevolezza emerge in considerazione della circostanza che l’eliminazione del vincolo paesaggistico comporta l’archiviazione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica già pendenti e rende improvvisamente e irragionevolmente privi di causa non solo i provvedimenti autorizzatori già rilasciati, ma anche le sanzioni già irrogate per gli illeciti paesaggistici realizzati.
Anche sotto questo profilo la normativa regionale censurata risulta perciò illegittima, per contrarietà agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
6. A titolo di esemplificazione delle distorsioni procurate dalla norma censurata, deve evidenziarsi che il primo effetto dell’abrogazione del vincolo paesaggistico è quello di consentire il rilascio del condono edilizio (ai sensi delle normative eccezionali del 1985, del 1994 e del 2004) anche per edificazioni che non sarebbero state condonabili.
Con riferimento alle domande finalizzate al rilascio del provvedimento di condono per abusi realizzati prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico del 1989, la norma ha un manifesto effetto premiale, atteso che, per le edificazioni abusivamente eseguite nei territori prima facenti parte del Parco, le domande potranno essere senz’altro accolte, senza necessità di acquisire il parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio, che dovrebbe operare la valutazione di compatibilità con il vincolo sopravvenuto, ai sensi dell’articolo 32 della legge n. 47 del 1985.
Ciò che è più grave, e rende manifestamente evidente l’illegittimità costituzionale della disciplina censurata, è l’effetto che viene a prodursi con riferimento alle edificazioni eseguite dopo l’imposizione del vincolo del 1989, atteso che per tali edificazioni non sarebbe stato possibile neppure astrattamente accedere al condono edilizio del 2004.
Come è noto, infatti, l’articolo 32, comma 27, lett. D), del decreto legge n. 269 del 2003 preclude in modo assoluto la sanatoria delle opere abusive qualora “siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Emerge da quanto ora esposto che il mutamento di disciplina da parte della Regione è sostanzialmente indirizzato a facilitare il ricorso alla sanatoria edilizia, con efficacia estesa anche al passato, così da ampliare, irragionevolmente, la sfera dei possibili beneficiari, rendendo persino ammissibili retroattivamente domande di condono che, in assenza della norma censurata, non sarebbero state neppure scrutinabili nel merito.
Al riguardo, deve qui ricordarsi che, con la sentenza n. 39 del 2006, la Corte Costituzionale ha già censurato, per manifesta irragionevolezza e contrarietà all’art. 3 Cost., la normativa regionale (della Regione Siciliana) volta a rendere retroattivamente più ampia l’area di applicazione del condono edilizio, affermando che la tutela dei vincoli paesaggistici ed ambientali prevale sulle ipotesi di condono edilizio.
Per le ragioni ora illustrate, la disciplina regionale è, quindi, illegittima per violazione della potestà esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. L), Cost., nonché della potestà dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lett. M) e di tutela del paesaggio nell’ambito delle procedure di condono edilizio (art. 117, secondo comma, lett. S), in concreto esercitata mediante la legge n. 47 del 1985 e l’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003.
7. Sotto altro profilo, strettamente connesso a quanto sin qui osservato, l’abolizione del vincolo determinerà il venir meno in radice di abusi paesaggistici che non sarebbero neppure sanabili ai sensi dell’art. 167 e 181 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Le suddette disposizioni consentono, infatti, di valutare la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite in assenza di autorizzazione esclusivamente nei casi tassativamente indicati al comma 4 dell’art. 167. In particolare, la sanatoria è esclusa in radice laddove siano stati realizzati superfici utili o volumi o siano stati aumentati quelli legittimamente realizzati.
L’abolizione del vincolo paesaggistico comporterà il venir meno degli illeciti, stante la radicale eliminazione del vincolo, con conseguente abolizione anche del trattamento sanzionatorio penale e invasione, da parte della Regione, della potestà statale in materia di ordinamento penale (art. 117, secondo comma, lett. L). La Corte costituzionale ha già puntualizzato, in passato, in tema di condono edilizio, che “Non vi è dubbio sul fatto che solo il legislatore statale può incidere sulla sanzionabilità penale” (sentenza n. 487 del 1989) e che esso, specie in occasione di sanatorie amministrative, dispone di assoluta discrezionalità in materia “di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità” (sentenze n. 327 del 2000, n. 149 del 1999 e n. 167 del 1989, richiamate nella sentenza n. 196 del 2004). In tale ottica, le disposizioni regionali che incidono sul trattamento sanzionatorio degli illeciti paesaggistici, anche sul piano amministrativo, si pongono pure in contrasto con la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti uniformemente in tutto il territorio nazionale.
Sotto questo profilo viene, quindi, in rilievo la violazione della potestà esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. L), Cost., nonché della potestà dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lett. M) e dell’art. 117, secondo comma, lettera s) per violazione degli artt. 167 e 181 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, da considerare parametri interposti.
8. L’articolo 2 della legge regionale in esame, laddove introduce il nuovo comma 1 dell’art. 2 della legge regionale n. 42 del 2011, si pone altresì in contrasto con il principio costituzionale di leale collaborazione, in quanto costituisce il frutto di una scelta assunta unilateralmente dalla Regione, al di fuori del percorso condiviso con lo Stato trasfuso nell’Intesa sottoscritta nel 2009 e che ha condotto al disciplinare aggiornato, sottoscritto in data 8 giugno 2016.
Va ricordato al riguardo che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, il principio di leale collaborazione “deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni”, atteso che “la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti” (così in particolare, tra le tante, Corte cost. n. 31 del 2006). In particolare, la Corte ha chiarito che “Il principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto” (così ancora la sentenza richiamata). Più recentemente, la Corte ha ribadito che la “unitarietà del valore della tutela paesaggistica comporta (…) l’impossibilità di scindere il procedimento di pianificazione paesaggistica in subprocedimenti che vedano del tutto assente la componente statale”, sottolineando che il principio di leale collaborazione deve concretizzarsi in “un confronto costante, paritario e leale tra le parti, che deve caratterizzare ogni fase del procedimento e non seguire la sua conclusione” (sentenza n. 240 del 2020).
La scelta unilaterale della Regione Abruzzo, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente avviato con lo Stato, si pone, pertanto, in contrasto anche con il predetto principio, traducendosi in un comportamento non leale, nella misura in cui, nonostante il percorso di collaborazione avviato, la Regione approva la riduzione dei confini del Parco naturale, destinata a produrre i suoi effetti nelle more dell’approvazione del Piano paesaggistico oggetto di accordo con il Ministero della Cultura.
C . Sotto il profilo dell’ordine pubblico e della sicurezza e dell’ordinamento penale :
L’articolo 8 della legge regionale novella l’articolo 12 della legge regionale n. 42/2011, stabilendo che :
- “ad apposite guardie del parco assegnate all’Ente Parco” è attribuita la qualifica di agente di polizia giudiziaria con decreto prefettizio (comma 2, lett. C);
- il predetto personale – che non sembra rientrare nell’organico dell’Ente Parco poiché, a tenore della norma regionale, gli viene “assegnato” aliunde - svolge il proprio servizio (di sorveglianza sul territorio del Parco) in divisa ed è munito di tesserino di riconoscimento rilasciato dall’Ente Parco (comma 3).

Al riguardo si osserva, innanzitutto, che così come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, “va ritenuta costituzionalmente illegittima una norma regionale che (…) provveda ad attribuire (…) la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria, trattandosi di compito riservato in via esclusiva alla legislazione statale” (v. sentenze nn. 313/2003, 167/2010, 8/2017, 82/2018). È, infatti, principio consolidato che ufficiali o agenti di polizia giudiziaria possono essere solo i soggetti indicati all’articolo 57, commi 1 e 2, del Codice di procedura penale, nonché quelli ai quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni di cui all’articolo 55 del medesimo Codice, aggiungendo che le fonti da ultimo richiamate non possono essere che statali, in considerazione di quanto previsto dall’articolo 117, secondo comma, lett. H) e l) Cost., in materia, rispettivamente, di ordine pubblico e sicurezza e di ordinamento e giurisdizione penale. La qualifica di agente di polizia giudiziaria non può, pertanto, essere conferita sulla base della legge regionale in esame.
In assenza di una specifica disciplina statale in materia, inoltre, la richiamata previsione normativa regionale appare invasiva della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lett. G), Cost.), poiché attribuisce al prefetto compiti non previsti dalla legge statale.
Inoltre, si evidenzia che le previsioni regionali di cui alla lettera c) del comma 2, nonché di cui al comma 3, ove si riferiscano alla figura e allo status della “guardia particolare giurata”, invadono la competenza esclusiva statale di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. H) Cost., cui si ricollega la disciplina dettata dagli articoli 133-141 T.U.L.P.S. e dall’art. 254 del relativo regolamento di esecuzione, di cui al R.D. 6 maggio 1940, n. 635.

Per i motivi esposti, la legge regionale, limitatamente alle disposizioni sopra richiamate, deve essere impugnata ai sensi dell’ articolo 127 della Costituzione.

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