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Modifica dell’articolo 27 della legge regionale 21 agosto 2007, n. 18 (norme in materia di usi civici). Proroga termini. (28-12-2021)
Calabria
Legge n.41 del 28-12-2021
n.114 del 29-12-2021
Politiche ordinamentali e statuti
24-2-2022 /
Impugnata
Con la presente legge la Regione Calabria dispone la modifica dell’articolo 27 della legge regionale 21 agosto 2007, n. 18 (norme in materia di usi civici). Proroga termini.
Tuttavia la presente legge è censurabile per le seguenti motivazioni:
L’articolo 1 apporta modifiche alla legge regionale 21 agosto 2007, n. 18, recante “Norme in materia di usi civici” prevedendo quanto segue: “Alla fine del comma 1 dell’articolo 27 della legge regionale 21 agosto 2007, n. 18 (Norme in materia di usi civici), le parole “31 dicembre 2021” sono sostituite dalle seguenti: “31 dicembre 2022”.
Preliminarmente si evidenzia che, nel suo impianto generale, non oggetto di modifica da parte della odierna novella, la legge regionale Calabria n. 18 del 2007 ha inteso conferire ai comuni, ai sensi dell’articolo 14, le funzioni amministrative concernenti la liquidazione degli usi civici, la verifica demaniale di terre oggetto di usi civici, la legittimazione di occupazioni abusive e l’affrancazione, la gestione e la classificazione dei terreni di uso civico, e ha riservato alla Regione la competenza in materia di funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo (articolo 6).
La medesima legge ha altresì introdotto, in via transitoria e per le sole “aree urbane”, individuate dall’articolo 26 quali le “aree con destinazione urbanistica edificatoria, commerciale, agricola o industriale, ovvero aree parzialmente o completamente edificate o pertinenze di fondi urbani”, una procedura semplificata per la definizione delle procedure di cui agli articoli 17, 19 e 20; la procedura de qua prevede che, all’interno di tali aree urbane, è possibile definire le istanze di liquidazione degli usi civici, di legittimazione della detenzione di fatto senza titolo di terre del demanio civico comunale, di affrancazione del fondo enfiteutico, mediante una procedura con iter semplificato.
Tale procedura semplificata prevede, ai sensi dell’articolo 27, commi 3 e 4, che ai fini della definizione delle istanze di liquidazione degli usi civici, di legittimazione dell’occupazione abusiva di terre del demanio civico comunale e di affrancazione del fondo enfiteutico non è richiesta né l’acquisizione del parere della Comunità montana, né l’approvazione o il visto regionale; inoltre tali istanze si intendono accolte con la formazione del silenzio-assenso nel caso in cui il Comune non comunichi, entro il termine di centoventi giorni dalla presentazione, il rigetto delle stesse, ovvero rappresenti esigenze istruttorie o richieda l’integrazione di atti o documenti, nel qual caso il termine è interrotto e riprende a decorrere per ulteriori centoventi giorni dall’espletamento dell’istruttoria o dall’integrazione documentale.
L’esperimento della richiamata procedura, che prima dell’entrata in vigore della legge regionale in esame risultava consentito fino alla data del 31 dicembre 2021, è stato prorogato, per effetto della odierna novella, fino alla data del 31 dicembre 2022.
Al riguardo e, in via del tutto preliminare, si rileva come tale proroga, costituendo soltanto l’ultima di una lunga serie di proroghe già disposte in materia dalla Regione Calabria, appare idonea a determinare, irrimediabilmente, una stabilizzazione della misura in esame, a dispetto del suo carattere transitorio.
Sul punto, risulta opportuno evidenziare che la Corte costituzionale ha recentemente stigmatizzato la prassi delle proroghe successive nel tempo rimarcando che “Il prolungato succedersi delle proroghe di una disciplina derogatoria, in contrasto con le esigenze di una regolamentazione organica e razionale dell’assetto del territorio, presenta un innegabile rilievo”, trattandosi di un dato “meritevole di attenta considerazione” (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 170 del 2021).
Tanto premesso, si osserva altresì come la procedura semplificata di cui all’articolo 27, nell’assegnare al comune un ruolo pressoché esclusivo con riferimento a quelle funzioni amministrative che incidono sugli usi civici, non tiene in debito conto che si sta legiferando in un ambito appartenente alla esclusiva competenza dello Stato.
Come noto, l'articolo 142, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”, nel disciplinare le aree tutelate per legge, include fra queste le zone gravate da usi civici, sottoponendole a vincolo paesaggistico.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio riprende quanto già stabilito con decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale”, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431. Tale disciplina è improntata al principio secondo il quale i caratteri morfologici, le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico e il relativo regime giuridico sono meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione integra e incontaminata di questi patrimoni collettivi, in ragione del valore paesaggistico intrinseco che le aree territoriali coperte da uso civico presentano per le loro caratteristiche morfologiche ed ubicazionali.
Le disposizioni richiamate, come ribadito in più occasioni dalla Corte costituzionale, costituiscono norme di grande riforma economico-sociale. Esse si impongono pertanto al rispetto del legislatore regionale (ex plurimis, sentenze n. 210 del 2014, n. 207 e n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164 del 2009). È infatti acclarata la sussistenza di uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio.
La straordinaria importanza di tali patrimoni e la necessità di conservarli integri per le generazioni future ha portato il legislatore del 1927 (legge 16 giugno 1927 n. 1766 e relativo regolamento di attuazione del 26 febbraio 1928 n. 332 sul riordinamento degli usi civici nel Regno) a sancire il regime di indisponibilità e di tutela dei beni demaniali di uso civico, rafforzato dalla loro classificazione come “beni ambientali” (legge 8 agosto 1985 n. 431). Già nel sistema della legge del 1927, i beni demaniali di uso civico erano tutelati nella loro originaria destinazione agro-silvo-pastorale.
La legge 20 novembre 2017 n. 168, recante “Norme in materia di domini collettivi”, ha rafforzato il regime di indisponibilità dei detti beni, introducendo il concetto della “perpetua” destinazione agro- silvo-pastorale dei beni demaniali di uso civico, che deve quindi permanere per le generazioni future, con il mantenimento del vincolo ambientale anche in caso di liquidazione degli usi civici. Con la predetta legge si è stabilito che i beni di collettivo godimento sono tutelati e valorizzati in quanto elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali; strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale; componenti stabili del sistema ambientale; basi territoriali di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale; strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale; fonte di risorse rinnovabili da valorizzare e utilizzare a beneficio delle collettività locali degli aventi diritto.
La stessa legge prevede inoltre, all’articolo 3, comma 3, che il regime giuridico dei beni collettivi “resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale”.
Tale regime è reso ancora più stringente dal successivo comma 6, del medesimo articolo 3, il quale stabilisce che “Con l’imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da usi civici di cui all’articolo 142, comma 1, lettera h), del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici”.
La Corte costituzionale ha avuto modo di evidenziare che “(...) dalla nuova legge – e già per effetto della nuova terminologia nella denominazione dell’istituto – emerge con evidenza il netto cambiamento di prospettiva con cui l’ordinamento statale ha provveduto alla regolamentazione della materia.
Infatti, se la disciplina contenuta nella legge n. 1766 del 1927 era ispirata ad una chiara finalità liquidatoria, che trovava fondamento nella posizione di disfavore con cui il legislatore dell’epoca valutava l’uso promiscuo delle risorse fondiarie e nell’esigenza di trasformare la proprietà collettiva in proprietà individuale, nel quadro del controllo sull’indirizzo delle attività produttive proprio del carattere dirigistico dell’ordinamento corporativo, al contrario la disciplina contenuta nella legge n. 168 del 2017, pur senza abrogare la precedente normativa, risulta orientata alla prevalente esigenza di salvaguardare le numerose forme, molteplici e diverse nelle varie aree territoriali, in cui si realizzano modalità di godimento congiunto e riservato di un bene fondiario da parte dei membri di una comunità, sul presupposto che esse sono funzionali non soltanto alla realizzazione di un interesse privato dei partecipanti, ma anche di interessi superindividuali di carattere generale, connessi con la salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e culturale del Paese” (Corte cost., n. 228 del 2021).
In altra pronuncia in materia di usi civici, la Corte ha affermato che “il riconoscimento normativo della valenza ambientale dei beni civici ha determinato, da un lato, l’introduzione di vincoli diversi e più penetranti e, dall’altro, la sopravvivenza del principio tradizionale, secondo cui eventuali mutamenti di destinazione – salvo i casi eccezionali di legittimazione delle occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali – devono essere compatibili con l’interesse generale della comunità che ne è titolare” (cfr. sentenza n. 103 del 2017).
La Corte ha evidenziato, ancora, che “La consolidata vocazione ambientalista degli usi civici e dei domini collettivi – che, per altro verso, chiama in causa la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di «tutela dell’ambiente» e «dell’ecosistema» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenza n. 103 del 2017), oltre quella in materia di «ordinamento civile» (...) – è ora chiaramente affermata dalla stessa legge n. 168 del 2017, nella parte in cui – nell’enunciare che i domini collettivi sono riconosciuti in attuazione, tra l’altro, dell’art. 9 Cost. (sentenza n. 71 del 2020) – stabilisce che, con l’imposizione del vincolo paesaggistico, l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio ed aggiunge che «[t]ale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici» (art. 3, comma 6).
Inoltre la dichiarata connotazione dei domini collettivi come «comproprietà inter-generazionale» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge n. 168 del 2017) mostra una chiara proiezione diacronica affinché l’ambiente e il paesaggio siano garantiti anche alle future generazioni” (così ancora Corte cost., n. 228 del 2021).
La Corte ha anche affermato che “La regola generale, desumibile dalla legge n. 1766 del 1927, rimane quella per cui un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di alienazione o di liquidazione al di fuori delle ipotesi tassative contemplate dalla legge stessa e dal regolamento dettato per la sua esecuzione (regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, recante «Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno»)” (Corte cost. n. 228 del 2021). Tanto che “la destinazione di beni civici può essere variata solo nel rispetto della vocazione dei beni e dell’interesse generale della collettività” (Corte cost. n. 103 del 2017).
In questo quadro si inserisce il recente intervento legislativo di cui al decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. decreto semplificazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108, mediante il quale il legislatore statale ha introdotto talune importanti novità in materia di trasferimenti di diritti di uso civico e permute aventi a oggetto terreni a uso civico.
In particolare, l’articolo 63-bis del predetto decreto-legge ha aggiunto tre nuovi commi (8-bis, 8- ter e 8-quater) all’articolo 3, della legge n. 168 del 2017, prevedendo la facoltà per le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano di consentire ai comuni i trasferimenti di diritti di uso civico e le permute – nei casi di terreni appartenenti al demanio civico in situazione di accertata e irreversibile trasformazione – in altre aree appartenenti al patrimonio disponibile degli Enti territoriali e locali, esclusivamente per terreni di superficie e valore equivalente.
I trasferimenti di diritti di uso civico e le permute hanno a oggetto terreni di superficie e valore ambientale equivalenti che appartengono al patrimonio disponibile degli enti. Questi terreni vengono di conseguenza demanializzati, mentre quelli dai quali sono trasferiti i diritti di uso civico vengono di conseguenza sdemanializzati e su di essi è mantenuto il vincolo paesaggistico.
Mediante tale novella il legislatore statale introduce, pertanto, talune deroghe – aventi carattere eccezionale e, come tali, di stretta interpretazione, in ossequio alla richiamata giurisprudenza della Corte costituzionale – alla regola generale sancita dalla legge n. 168 del 2017, ove si stabilisce, come detto, la inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e la perpetua destinazione agro-silvo-pastorale dei beni collettivi (articolo 3, comma 3).
La legge regionale in commento, pertanto, deve essere analizzata all’interno del quadro normativo statale di riferimento.
Essa introduce la proroga - per un ulteriore anno – della procedura semplificata disciplinata dall’articolo 27 della legge n. 18 del 2007, governata dall’istituto del silenzio-assenso ed esperibile, in particolare, per la definizione dei procedimenti amministrativi concernenti la liquidazione degli usi civici, la legittimazione dell’occupazione abusiva di terre del demanio civico comunale e l’affrancazione del fondo enfiteutico.
Per la definizione di tali istanze, prevede l’articolo 27, al comma 3, non è necessario acquisire il parere della Comunità montana, né ottenere l’approvazione o il visto regionale. Il successivo comma 4 dispone inoltre che l’istanza si intenda accolta nel caso in cui il Comune non comunichi, entro il termine di centoventi giorni dalla presentazione, il rigetto della stessa, ovvero rappresenti esigenze istruttorie o richieda l'integrazione di atti o documenti, nel qual caso, il termine è interrotto e riprende a decorrere per ulteriori centoventi giorni dall'espletamento dell'istruttoria o dall'integrazione documentale.
Ne consegue evidentemente che, oltre a non prevedere da parte del Comune né l’acquisizione del parere della Comunità montana, né l’approvazione o il visto regionale, tale iter semplificato poggia sull’istituto del silenzio-assenso, dal momento che è stabilito che in tutti i casi in cui il Comune interessato non riesca a definire l’istanza del privato con un provvedimento espresso nel termine previsto dalla norma censurata, le domande sopra richiamate si intenderanno accolte.
La disposizione risulta, quindi, improntata a favorire la liquidazione degli usi civici, la legittimazione dell’occupazione senza titolo e l’affrancazione dei fondi enfiteutici, consentendole con le modalità estremamente semplificate sopra descritte, e addirittura con la formazione del provvedimento per silenzio-assenso. Per questa via, la disposizione regionale si pone radicalmente in contrasto con la disciplina statale, che non reca analoghe “semplificazioni”, e – soprattutto – contravviene ai principi sottesi alla legge n. 168 del 2017, la quale, come sopra ricordato, ha superato la finalità liquidatoria della normativa previgente, valorizzando le esigenze di conservazione in perpetuo degli usi civici.
La disposizione regionale è, infatti, improntata a una logica tutta sbilanciata in favore della proprietà privata e in danno di quella collettiva, tanto da consentire la cessazione di quest’ultima sulla base di una mera istanza di un privato, senza il parere della Comunità montana e sulla base di una volontà del Comune espressa mediante un mero silenzio-assenso.
Così facendo, la Regione interviene in via del tutto autonoma, in una materia disciplinata dalla legge statale, ponendosi al di fuori degli stringenti limiti imposti dalla stessa.
Sul punto, la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire che “La competenza regionale nella materia degli usi civici deve essere intesa come legittimazione a promuovere, ove ne ricorrano i presupposti, i procedimenti amministrativi finalizzati alle ipotesi tipiche di sclassificazione previste dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751) e dal relativo regolamento di attuazione (Regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 recante «Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno»), nonché quelli inerenti al mutamento di destinazione” (Corte cost. n. 178 del 2018).
Più in dettaglio, la Corte ha affermato che “l’art. 66 del d.P.R. n. 616 del 1977, che ha trasferito alle Regioni soltanto le funzioni amministrative in materia di usi civici, non ha mai consentito alla Regione – e non consente oggi, nel mutato contesto del Titolo V della Parte II della Costituzione – di
invadere, con norma legislativa, la disciplina dei diritti [condominiali degli utenti], estinguendoli, modificandoli o alienandoli [e che] un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di alienazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, «che lo assimila ad un bene appartenente al demanio […]» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792)” (Corte cost., n. 113 del 2018). L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta che la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione (in questo senso ancora Corte Cost., n. 113 del 2018).
L’articolo 1, della legge regionale n. 41 del 2021, che apporta modifiche alla legge regionale 21 agosto 2007, n. 18, prevedendo che: “Alla fine del comma 1 dell’articolo 27 della legge regionale 21 agosto 2007, n. 18 (Norme in materia di usi civici), le parole “31 dicembre 2021” sono sostituite dalle seguenti: “31 dicembre 2022”, è pertanto costituzionalmente illegittimo, per le motivazioni che si andranno qui di seguito ad illustrare.
Le disposizioni contenute nel predetto articolo 1 della legge regionale in esame invadono la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, in quanto prevedono, all’esito di un procedimento avente carattere semplificato e, come già evidenziato, governato dall’istituto del silenzio-assenso, la liquidazione degli usi civici, la legittimazione dell’occupazione abusiva di terre del demanio civico comunale e l’affrancazione del fondo enfiteutico dei beni ricadenti in aree urbane senza – tra l’altro – tenere conto che le zone gravate da usi civici sono assoggettate a vincolo paesaggistico ai sensi dell’articolo 142, comma 1, lettera h), del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Le previsioni regionali censurate inoltre svolgono le funzioni riservate al piano paesaggistico, che è lo strumento al quale è rimessa la fissazione della disciplina d’uso dei beni paesaggistici, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Al riguardo, occorre ricordare che “la sovrapposizione fra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale prodotto di «una integrazione tra uomo e ambiente naturale»” (Corte cost. n. 46 del 1995).
Alla tutela – tra l’altro – di tale interesse è diretta la previsione dell’articolo 143, comma 1, lettera c), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ove si prevede che il piano paesaggistico debba comprendere la “ricognizione delle aree di cui al comma 1 dell’articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione”. Come detto, tra le aree interessate dal richiamato articolo 142, comma 1, del Codice dei beni culturali e del paesaggio rientrano quelle “assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici” (lettera h).
Il Codice assegna una posizione di assoluta preminenza, nel contesto della pianificazione territoriale, al Piano paesaggistico, approvato sulla base dell’intesa tra lo Stato e la Regione (cfr. articolo 135, comma 1), il quale non è derogabile, né modificabile da alcun altro piano, programma o progetto di intervento (articolo 145).
La co-pianificazione, ai sensi del citato articolo 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ha natura obbligatoria per le aree vincolate gravate da vincoli paesaggistici, ed è norma di grande riforma economico-sociale, che si impone, peraltro, finanche nei confronti delle regioni ad autonomia speciale.
Nella sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha spesso sottolineato che l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).
Con il nuovo articolo 1 della legge regionale, la Regione interviene tuttavia unilateralmente, anziché attraverso la pianificazione condivisa, e si inserisce, altresì, nel quadro della incompiuta pianificazione paesaggistica regionale, nonostante il percorso intrapreso da questa Amministrazione abbia portato all’approvazione del propedeutico Quadro Territoriale Regionale a Valenza Paesaggistica.
La tutela del paesaggio, che è dettata dalle leggi dello Stato, trova infatti la sua espressione nei piani territoriali, a valenza ambientale, o nei piani paesaggistici, redatti dalle Regioni. I piani paesaggistici regionali costituiscono il luogo della più compita espressione legislativa delle politiche in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio, luogo in cui le diverse potestà statali e regionali si compongono in un quadro unitario.
La mancata adozione degli stessi e l’utilizzo, da parte del legislatore regionale, di modalità unilaterali che si pongono al di fuori dello strumento collaborativo del piano paesaggistico la cui redazione è obbligatoria per le Regioni, costituiscono altresì violazione del principio di leale collaborazione di cui all’articolo 118 della Costituzione.
I principi in materia di co-pianificazione contenuti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio comportano, pertanto, l’illegittimità costituzionale di una disciplina regionale recante forme di modificazione dei vincoli di destinazione delle aree gravate da usi civici, senza consentire allo Stato di far valere la propria competenza a tutelare il paesaggio e prevedendo effetti modificativi del regime dei beni prima e al di fuori del piano paesaggistico (Corte cost. n. 210 del 2014). In questa prospettiva, è stata ritenuta illegittima, per violazione degli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, anche una disciplina regionale che attribuiva ai Comuni il potere di attuare processi di transazione giurisdizionale a chiusura di liti o cause legali in corso (cfr. ancor a Corte cost. n. 210 del 2014).
Nel solco di questi principi, la Corte, anche di recente, ha affermato che “è proprio la pianificazione ambientale e paesaggistica, esercitata da Stato e Regione, secondo le condivise modalità specificate da questa Corte (sentenza n. 210 del 2014), la sede nella quale eventualmente può essere modificata, attraverso l’istituto del mutamento di destinazione, l’utilizzazione dei beni d’uso civico per nuovi obiettivi” (Corte cost. n. 178 del 2018).
La disciplina regionale censurata, dettando unilateralmente previsioni relative alla liquidazione, alla legittimazione dell’occupazione abusiva e alla affrancazione del fondo enfiteutico in aree gravate da usi civici è, pertanto, illegittima per violazione dell’articolo 142, comma 1, lettera h), nonché degli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, della legge n. 168 del 2017, nonché delle altre norme statali in materia di usi civici; disposizioni che costituiscono altrettanti parametri interposti rispetto agli articoli 9, 117, secondo comma, lett. s), e 118 della Costituzione.
Un ulteriore profilo di criticità della legge regionale in questione deriva dal contrasto con l’articolo 117, secondo comma, lettera l) (“Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa”), in quanto il regime dominicale degli usi civici appartiene alla materia “ordinamento civile”, di competenza esclusiva dello Stato.
Come affermato dalla più volte citata sentenza n. 228 del 2021: “(…) gli usi civici e ora i domini collettivi configurano (…) un diritto soggettivo dominicale, che presenta i caratteri della proprietà comune, sia pure senza quote, su un bene indiviso. Si tratta, dunque, di un diritto reale, che segue il bene, tutelabile con azione petitoria, e che presenta i caratteri propri dei diritti reali quali, in particolare, l’assolutezza, l’immediatezza e l’inerenza. La natura di diritto dominicale attrae la disciplina dell’istituto nella materia «ordinamento civile», alla quale appartiene la qualificazione della natura pubblica o privata dei beni, la regolazione della titolarità e dell’esercizio del diritto, l’individuazione del suo contenuto, la disciplina delle facoltà di godimento e di disposizione in cui esso si estrinseca (art. 832 del codice civile) e quella della loro estensione e dei loro limiti”.
E ancora: “L’attribuzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato della materia «ordinamento civile» trova fondamento nell’esigenza, sottesa al principio di uguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati (…). La norma regionale impugnata lede questa esigenza perché interviene nella disciplina della proprietà collettiva, peraltro in modo difforme da quanto previsto dalle norme statali in materia, così pregiudicando la necessaria uniformità della regolamentazione dell’istituto su tutto il territorio nazionale. (…) la norma afferisce alla titolarità del diritto dominicale di uso civico, incidendo segnatamente sul suo esercizio per il fatto di escludere indebitamente dal godimento promiscuo alcuni membri della collettività territoriale”.
La legge statale non consente in linea di principio l’alienazione o la liquidazione degli usi civici, fuori dei casi espressamente contemplati.
Introducendo la possibilità di liquidare gli usi civici, legittimarne l’uso senza titolo o affrancare i fondi enfiteutici anche per silentium e senza il parere delle Comunità montane comporta un grave vulnus alla conservazione dei predetti diritti collettivi, non previsto dalla legge statale. È, perciò, violata anche la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. l), Cost.
Per i motivi suesposti, si ritiene di sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale della legge regionale in esame in tema di usi civici.
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