Dettaglio Legge Regionale

Legge di stabilità regionale 2019. (10-5-2019)
Molise
Legge n.4 del 10-5-2019
n.17 del 13-5-2019
Politiche economiche e finanziarie
11-7-2019 / Impugnata
La legge della Regione Molise 10 maggio 2019, n. 4 recante "Legge di stabilità regionale 2019", contempla talune disposizioni che appaiono costituzionalmente illegittime; si ritiene pertanto che vada impugnata in Corte Costituzionale per le motivazioni di seguito illustrate.

L'art. 10 da un lato abroga il comma 4 dell'art. 3-bis della L.R. nr. 4/2015 (che stabiliva la corresponsione all'Amministratore unico dell'ARSARP di un'indennità di funzione onnicomprensiva, determinata dalla Giunta regionale, non eccedente il 70 per cento della retribuzione dei dirigenti di servizio della Regione Molise), dall'altro introduce il principio che il trattamento economico di detto Amministratore si conforma ai principi di cui all'art. 24 comma 3 D.Lgs. 165/2001 (che, a propria volta, rimanda alla retribuzione del personale con qualifica dirigenziale).
Il trattamento economico dell'Amministratore unico dell'ARSARP, per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 10, beneficia così di un incremento, a riscontro del quale occorre che la previsione sia contestualmente accompagnata da una corrispondente norma di copertura finanziaria, non rinvenuta nel testo di legge.
Pertanto, la disposizione regionale è illegittima per violazione dell’articolo 81, terzo comma, della Costituzione.

L'articolo 15 (Riordino dell'assetto organizzativo del Sistema Regione Molise) la norma definisce un articolato progetto di riordino dell'assetto organizzativo del cosiddetto "Sistema Regione Molise", istituito con l’articolo 7 della legge regionale n. 16/2010, con particolare riferimento all’utilizzo delle risorse umane alle dipendenze degli enti e delle società partecipate elencate nelle tabelle AI e A2 allegate alla legge regionale n. 5/2016.
II progetto di riordino di cui trattasi prevede l’utilizzo condiviso del personale dipendente dagli enti e dalle società appartenenti al gruppo "Sistema Regione Molise", per il perseguimento di fini comuni, tramite l’istituto giuridico del distacco da disciplinare con regolamento della Giunta regionale.
L’art. 16 disciplina, fissando i relativi principi l’istituto deIl'«utilizzazione in posizione di distacco» di personale dagli Enti rientranti nel sistema sanitario regionale (AsREM e ARPA) presso le Strutture della Giunta.
L'articolo 15, comma 2 lettere f), g) e comma 3, e l’articolo 16, comma 1, lettere f) e g), nel disciplinare l'utilizzo delle risorse umane all'interno del c.d. sistema Molise richiamano, l'istituto deIl'«utilizzazione in posizione di distacco».
Orbene, originariamente l'istituto del comando era disciplinato dagli articoli 56 e 57 del d.P.R. n. 3 del 1957.
In particolare, l'articolo 56 ("Comando presso altra amministrazione") prevede che: "L'impiegato può essere comandato a prestare servizio presso altra amministrazione statale o presso enti pubblici, esclusi quelli sottoposti alla vigilanza dell'amministrazione cui l'impiegato stesso appartiene. Il comando è disposto, per tempo determinato e in via eccezionale, per riconosciute esigenze di servizio o quando sia richiesta una speciale competenza. Al comando si provvede con decreto dei ministri competenti di concerto con il ministro per il Tesoro, sentiti l'impiegato ed il Consiglio di amministrazione. Per l'impiegato con qualifica non inferiore a direttore generale, si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri, su proposta dei ministri competenti di concerto con quello per il Tesoro. E vietata l'assegnazione anche temporanea di impiegati ad uffici diversi da quelli per i quali sono istituiti i ruoli cui essi appartengono".
Inoltre, ai sensi dell'articolo 57, commi 2 e 3, del medesimo d.P.R., "la spesa per il personale comandato presso altra amministrazione statale resta a carico dell'amministrazione di appartenenza. Alla spesa del personale comandato presso enti pubblici provvede direttamente ed a proprio carico l'ente presso cui detto personale va a prestare servizio. L'ente è, altresì, tenuto a versare all'amministrazione statale cui il personale stesso appartiene l'importo dei contributi e delle ritenute sul trattamento economico previsti dalla legge".
Accanto all'istituto del comando, nella prassi si riscontrano le ipotesi di utilizzazione temporanea del dipendente pubblico presso un ufficio diverso da quello che costituisce la sua sede di servizio (c.d. "distacco") e quelle di utilizzazione delle strutture e degli uffici di altre amministrazioni o enti (c.d. "avvalimento d'ufficio").
In relazione alle ipotesi del c.d. "distacco" (istituto non espressamente regolamentato), si osserva che, secondo il prevalente insegnamento, "il distacco è l'utilizzazione temporanea del dipendente presso un ufficio, che è diverso da quello che costituisce la sua sede di servizio e che rientra comunque nella medesima amministrazione. Pertanto, il distacco non ricorre quando la prestazione venga eseguita presso altra amministrazione; in tale ipotesi, infatti, si configura il comando, che è l'istituto sul quale va concentrata l'attenzione. A tal proposito, in primo luogo, occorre osservare che, in mancanza di una specifica definizione normativa, il comando è stato individuato dalla giurisprudenza in tutte quelle ipotesi in cui il dipendente pubblico è destinato a prestare servizio presso una P.A. diversa da quella di appartenenza, senza che si abbia la costituzione di un nuovo rapporto di impiego con l'ente destinatario della prestazione, il quale sarà tenuto soltanto a rimborsare all'amministrazione di appartenenza il trattamento economico fondamentale. Alla posizione di comando del dipendente presso una nuova amministrazione non si accompagna, infatti, la soppressione del posto in organico presso l'amministrazione di provenienza, venendosi piuttosto a configurare una mobilità temporanea presso l'ente di destinazione, grazie ad un meccanismo caratterizzato dalla reversibilità (salvo provvedimento di immissione nei ruoli). La Sezione delle Autonomie nella deliberazione n. 12/2017/QMIG ha evidenziato che le caratteristiche fondamentali dell'istituto del comando - disciplinato originariamente dagli artt. 56 e 57 del D.P.R. n. 3 del 1957 e poi dalla contrattazione collettiva di settore e dal D.Lgs. n. 267 del 2000, come da richiamo operato dall'art. 70, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001- sono la temporaneità e l'interesse dell'amministrazione ricevente. Il dipendente comandato, autorizzato dall'ente "a quo" su richiesta motivata dalla necessità dell'ente "ad quem", non solo non svolge più la sua prestazione presso l'ente cedente, bensì soggiace al potere direttivo e gestionale dell'ente beneficiario. il trattamento economico fondamentale del personale comandato - ai sensi dell'art. 70, comma 3, del DLgs. n. 165 del 2001- rimane di competenza dell'amministrazione cedente, ancorché successivamente rimborsato. Il provvedimento di comando, dunque, non comporta una novazione soggettiva del rapporto di lavoro né, tanto meno, la costituzione di un rapporto di impiego comunque conformato con l'amministrazione destinataria delle prestazioni, ma determina esclusivamente una modificazione oggettiva del rapporto originario, nel senso che sorge nell'impiegato l'obbligo di prestare servizio nell'interesse immediato del diverso ente e di sottostare al relativo potere gerarchico (direttivo e disciplinare), mentre lo stato giuridico ed economico del "comandato" resta regolato alla stregua dell'ordinamento proprio dell'ente "comandante". Sulla base di tale ricostruzione la Sezione delle Autonomie nella medesima deliberazione n. 12/2017/QMJG ha quindi chiarito che: "Trattasi dunque di un'operazione di finanza neutrale che non incide sulla spesa degli enti coinvolti, purché quella sostenuta dall'ente cedente sia figurativamente considerata come spesa di personale" che, come detto, si distingue dal comando proprio perché l'impiegato non viene assegnato ad una pubblica amministrazione diversa da quella di appartenenza, ma - temporaneamente - ad un ufficio, diverso da quello nel quale è formalmente incardinato, ma comunque dell'amministrazione datrice di lavoro." (Corte conti, Reg. Sicilia, Sez. Contr., delib. 26 ottobre 2017, n. 177).
In sintesi, diversamente da quanto avviene nelle ipotesi di "distacco", nei casi di comando "fermo restando il cd. rapporto organico (che continua ad intercorrere tra il dipendente e l'ente di appartenenza), si modifica il cd. rapporto di servizio, atteso che il dipendente è inserito, sia sotto il profilo organizzativo-funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare, nell'amministrazione di destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la sua opera" (Cass., Sez. Lav., 8 settembre 2005 n. 17842; si veda anche, più recentemente, Cass., Sez. Lav., 29 maggio 2018, n. 13482, ove si legge: "nel comando - che determina una dissociazione fra titolarità del rapporto d'ufficio, che resta immutata, ed esercizio dei poteri di gestione - si modifica il cd. rapporto di servizio, atteso che il dipendente è inserito, sia sotto il profilo organizzativo funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare, nell'amministrazione di destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la sua opera").
Relativamente alle ipotesi di c.d. «avvalimento dell'ufficio», si evidenzia che esso si verifica allorquando l'amministrazione, anziché dotarsi di una struttura propria per lo svolgimento della funzione ad essa assegnata, si avvale, di solito a fini istruttori o di esecuzione, degli uffici di altro ente, al quale, però, non viene delegata la funzione stessa, che resta in capo, quanto alla titolarità ed alla responsabilità, al soggetto pubblico che utilizza gli uffici altrui (Cass. S.U. 8.2.2013 n. 3043; Cass. 16.12.2013 n. 28006).
L'avvalimento, quindi, attiene al rapporto fra enti e non determina alcuna modifica del rapporto di impiego, perché il personale dell'ente che fornisce la struttura necessaria allo svolgimento del compito resta incardinato in quest'ultimo a tutti gli effetti e non si verifica scissione fra rapporto di impiego e rapporto di servizio.
Viceversa, come già rilevato, il comando determina una dissociazione fra titolarità del rapporto d'ufficio, che resta immutata, ed esercizio dei poteri di gestione, giacché il dipendente viene destinato a prestare servizio, in via ordinaria e abituale, presso un'organizzazione diversa da quella di appartenenza.
Per quanto concerne i profili dell'erogazione del trattamento economico in favore del personale "comandato" o "distaccato", si evidenzia che l'articolo 70, comma 12, del decreto legislativo n. 165 del 2001 prevede che: "in tutti i casi, anche se previsti da normative speciali, nei quali enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici o altre amministrazioni pubbliche, dotate di autonomia finanziaria sono tenute ad autorizzare la utilizzazione da parte di altre pubbliche amministrazioni di proprio personale, in posizione di comando, di fuori ruolo, o in altra analoga posizione, l'amministrazione che utilizza il personale rimborsa all'amministrazione di appartenenza l'onere relativo al trattamento fondamentale (...) ".
Riassunto nei termini sopra descritti il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, si evidenzia che le previsioni regionali in esame, al di là del nomen iuris utilizzato, sono dirette a regolamentare l'istituto dell'utilizzazione in assegnazione temporanea del dipendente presso un'amministrazione diversa di appartenenza.
Per orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, il "d.lgs. n. 165 del 2001 ha stabilito che i rapporti di lavoro pubblici cosiddetti contrattualizzati sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile e sono oggetto di contrattazione collettiva (...). La costante giurisprudenza di questa Corte ha, poi, precisato che la disciplina del rapporto di impiego alle dipendenze della Regione e i profili relativi al trattamento economico del personale pubblico privatizzato vengono ricondotti alla materia dell'ordinamento civile, di competenza esclusiva del legislatore nazionale, che in tale materia fissa principi che «costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull'esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti tra privati e, come tali si impongono anche alle Regioni ..." (sentenza n. 81 del 2019).
Deve quindi ritenersi non conforme al quadro normativo delineato la possibilità, prevista dalle disposizioni della legge regionale in esame, che nel caso di comando del dipendente pubblico, pone definitivamente a carico dei bilanci dei rispettivi enti di appartenenza gli oneri finanziari relativi al costo ordinario del personale con qualifica dirigenziale e non dirigenziale.

Ne deriva che la previsione di cui al comma 2 lettere f) e g) e il comma 3, lettera i) dell'articolo 15, nonché il comma 1, lettere f) e g) dell'articolo 16 della legge regionale in oggetto risultano suscettibili di impugnazione per violazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, nonché del terzo comma del medesimo articolo 117, essendo la previsione del citato articolo 70, comma 12, del decreto legislativo n. 165 del 2001 attinente alla materia del "coordinamento della finanza pubblica".

Sempre in relazione alla previsione dell'articolo 15 della legge regionale in oggetto, si osserva che l'utilizzazione temporanea del personale delle società partecipate presso altri enti regionali non è compatibile con il decreto legislativo n. 175 del 2016.
Come noto, l'articolo 19 del prefato decreto legislativo disciplina in modo puntuale il rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate.
Orbene, in relazione alla possibilità di utilizzare il personale delle società c.d. pubbliche, utilizzando gli istituti del comando e del distacco, si osserva che la Corte dei Conti ha escluso la possibilità di applicare detti istituti propri del c.d. pubblico impiego al personale delle società de quibus, non rientrando le stessa nel novero delle pubbliche amministrazioni, come individuate dall'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 e non essendosi in presenza di rapporti di pubblico impiego.
In particolare, è stato evidenziato che: "[. . .] le società controllate dalla pubblica amministrazioni solo a determinati fini vengono incluse nel settore pubblico allargato; ciò avviene, ad esempio, nell'ambito dei contratti, per i quali è stata elaborata la nozione di organismo di diritto pubblico, oppure per l'applicazione della disciplina sulla trasparenza prevista dal D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33 o, infine, nella definizione del conto consolidato delle amministrazioni pubbliche, che include, accanto agli organismi pubblici dello Stato e degli enti territoriali, le unità istituzionali che producono beni non destinabili alla vendita soggetti a controllo pubblico, a prescindere dalla forma giuridica da esse rivestita. Alle società partecipate non possono applicarsi neppure gli altri istituti sulla mobilità del pubblico impiego. Al riguardo, si evidenzia che la mobilità del personale delle società partecipate è specificamente disciplinata dall'art. 19 del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, che contiene una regolamentazione puntuale, sicché non è applicabile l'art. 30 del D.Lgs. n. 165 del 2001, che si occupa della mobilità nel pubblico impiego. A tal proposito, il Collegio condivide l'orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per la Campania nella deliberazione n. 56/2017/PAR, che ha affermato che l'art. 30 del D.Lgs. n. 165 del 2001 non è applicabile in maniera generalizzata al settore del personale delle società a partecipazione pubblica, per il quale può operare solo nei ristretti ambiti soggettivi e oggettivi, legislativamente consentiti, di “reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati” e di “riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione". Tale preclusione discende, oltre che dal tenore letterale delle disposizioni, anche dall'esigenza di rispettare il divieto di attuare processi di mobilità fra la partecipata e l'Ente, al fine di evitare l'elusione dei vincoli alle assunzioni e del principio costituzionale del concorso pubblico. Non va poi trascurato che la Corte costituzionale ha più volte censurato le leggi regionali che consentivano i meccanismi di reinternalizzazione attraverso il passaggio automatico dall'impiego privato (società partecipata) a quello pubblico (Ente territoriale), aggirando in tal modo l'art. 97 Cost. e, in particolare, la regola che condiziona l'acquisizione dello status di dipendente pubblico al previo esperimento di un pubblico concorso. Al riguardo, la Corte costituzionale ha ritenuto che l'operazione di trasferimento avrebbe realizzato un'ipotesi di "inquadramento riservato senza concorso" anche nei casi in cui il personale dipendente da una società partecipata fosse stato assunto ab origine in seguito all'espletamento di una procedura selettiva equiparabile ad un concorso pubblico (cfr. Corte costituzionale, 1 luglio 2013, n. 167, e 16 luglio 2013, n. 227, nonché 30 gennaio 2015, n. 37). Vanno pure considerati i possibili riflessi negativi sul rispetto, da parte degli enti territoriali, dei limiti alle facoltà assunzionali, delle norme sul patto di stabilità interno (art. 1, commi 557 e ss., l. 27 dicembre 2006, n. 296) e sul saldo non negativo - in termini di competenza - tra le entrate finali e le spese finali ex articolo 1, comma 710, della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), e, in generale, dei vigenti vincoli di finanza pubblica (es. dell'articolo 3, commi 5, del D.L. n. 90 del 2014; dell'art.4, comma 3, del D.L. n. 78 del 19 giugno 2015; dell'art. 1, comma 424, della L. n. 190 del 2014)" (Corte conti, Reg. Sicilia, Sez. Contr., delib. 26 ottobre 2017, n. 177).
Conseguentemente, avendo il legislatore regionale disciplinato una forma di mobilità del personale delle società pubbliche diversa da quelle consentite dal decreto legislativo n. 175 del 2016, le previsioni di cui all'articolo 15, comma 3, lett. i) sono da impugnare dinnanzi alla Corte costituzionale per violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. l) e terzo comma della Costituzione.
Ciò, a fortiori, in considerazione del fatto che il distacco del personale delle società in parola avverrebbe al di fuori delle ipotesi e senza l'osservanza dei limiti e delle procedure previste dall'articolo 30 del decreto legislativo n. 276 del 2003.

L'articolo 15, comma 2, lett. h) e l'articolo 16, comma 1, lett. b) prevedono che gli incarichi di funzione dirigenziale, nel numero massimo di complessivi 3, conferiti al personale inquadrato nel ruolo dirigenziale dipendente dei rispettivi enti, conferiti dalla Giunta regionale non sono computati ai fini del calcolo della quota di cui all'articolo 19, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 165/2001.
Come noto, l'articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 contiene la disciplina relativa al conferimento degli incarichi dirigenziali.
"Occorre, innanzitutto, sottolineare che l'art. 19 del citato d.lgs. n. 165 del 2001, contempla tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l'organo politico.
Innanzitutto, sono previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta delle attribuzioni dirigenziali "apicali", conferite con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (art. 19, comma 3).
Sono poi disciplinati «gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (comma 4).
Infine, sono previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell'ufficio di livello dirigenziale generale».
5.1.- I predetti incarichi possono poi essere conferiti a soggetti che si trovino in una particolare posizione rispetto all’amministrazione che attribuisce la relativa funzione.
in primo luogo, l'incarico può essere attribuito a personale inserito nel «ruolo dei dirigenti», istituito presso ciascuna amministrazione statale e articolato in due fasce (art. 23, del d.lgs. n. 165 del 2001).
In secondo luogo, le funzioni dirigenziali possono essere conferite, entro limiti percentuali predeterminati, «anche ai dirigenti non appartenenti ai ruoli di cui al medesimo articolo 23», purché dipendenti da altre amministrazioni pubbliche, vale a dire da amministrazioni dello Stato diverse da quelle nel cui ambito è collocato il posto da conferire (art. 19, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001).
Infine, è prevista la possibilità, sempre nel rispetto di soglie prefissate, che ciascuna amministrazione attribuisca la titolarità di uffici dirigenziali, a tempo determinato, fornendone esplicita motivazione, a «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato» (art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni»)" (Corte Cost., 5 marzo 2010, n. 81).
Orbene, nell'evidenziare che l'articolo 27, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001 prevede che "le regioni a statuto ordinario, nell'esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche amministrazioni, nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano ai principi dell'articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità. Gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi regolamenti di organizzazione", si osserva che la giurisprudenza della Corte costituzionale è costante nell'affermare che "gli interventi legislativi che ( ... ) dettano misure relative a rapporti lavorativi già in essere" (ex multis: sentenze nn. 251 e 186 del 2016, n. 180 del 2015 e n. 32 del 2017) devono essere ricondotti alla competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile.
Inoltre, con specifico riguardo all'obbligo delle Regioni di rispettare le percentuali previste dal comma 5- bis dell'articolo 19 del decreto legislativo n. 165 del 2001, si evidenzia che il giudice delle leggi ha, in più occasioni, affermato che: "[...l la non computabilità di tali posizioni nella complessiva dotazione organica di dirigenti di prima fascia determina in ogni caso effetti negativi, sia di ordine finanziario, in relazione ai costi derivanti dalla retribuzione dei dirigenti interessati, sia riguardo al razionale assetto organizzativo realmente rispettoso delle previsioni normative in materia, e non soltanto dell'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001, e dunque produce, in definitiva, effetti negativi sul reale contenimento complessivo della spesa. In proposito, occorre difatti evidenziare che nelle amministrazioni pubbliche, ivi comprese le Regioni, la dotazione organica costituisce elemento ad oggi essenziale per l'assetto organizzativo e per la determinazione dei costi del personale, e che la sua consistenza e le sue variazioni sono pertanto determinate, previa verifica degli effettivi fabbisogni, in funzione di un accrescimento dell'efficienza delle amministrazioni, della realizzazione di un migliore utilizzo delle risorse umane, e appunto di una razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva del personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica (in tal senso gli artt. 1, commi 1 e 2, e 6, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001). Proprio in direzione di un contenimento della spesa operano, del resto, gli interventi, anche legislativi, disposti nell'ambito di misure di spending review (ad esempio l'art. 2 del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della L. 7 agosto 2012, n. 135), finalizzate a ridurre le dotazioni organiche, ivi comprese quelle dirigenziali. Ne consegue che una previsione, come quella in esame, intesa a non ricomprendere nelle dotazioni organiche una serie di posti dirigenziali può condurre ad un sostanziale aggiramento/svuotamento delle predette disposizioni" (Corte cost., 5 dicembre 2016, n. 257).
Conseguentemente, le disposizioni de quibus sono suscettibili di impugnazione per violazione dell'articolo 97, primo e secondo comma, e dell'articolo 117, secondo comma, lettera l) e terzo comma della Costituzione in materia di coordinamento della finanza pubblica.

L'articolo 32 inserisce all'articolo 1 della legge regionale 7 agosto 2003, n. 25 il comma 3-bis, il quale recita: "La Regione persegue l'obiettivo di limitare nel proprio territorio lo smaltimento di rifiuti speciali di provenienza extra regionale, nel limite della percentuale del totale dei rifiuti, speciali e non, trattati nel territorio regionale, scelta dalla Giunta regionale dopo relazione della struttura tecnica. Il competente servizio regionale emana, a tal proposito, specifiche direttive."
La modifica normativa introdotta con la norma che si contesta prevede la possibilità che la Regione, tenendo conto della potenzialità impiantistica di trattamento disponibile, limiti l'ingresso nel proprio territorio ai rifiuti speciali di provenienza extraregionale destinati ad operazioni di smaltimento.
Tale previsione viola le disposizioni di cui agli articoli 182 (Smaltimento dei rifiuti) e 182-bis (Principi di autosufficienza e prossimità) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che prevedono divieti e limitazioni sulla circolazione dei rifiuti fuori dal territorio regionale di produzione esclusivamente per i rifiuti urbani e non già per i rifiuti speciali, per i quali la libera circolazione sul territorio nazionale è invece sempre concessa.
In particolare, la norma regionale impugnata - prevedendo un divieto, legato a limitazioni territoriali, allo smaltimento extraregionale dei rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi - si pone in contrasto con quanto stabilito dal comma 3 del citato art. 182 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (norma riproducente l'espressione precedentemente contenuta nel comma 3 dell'art. 5 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22), che non prevede specifici divieti, pur manifestando favore verso «una rete integrata ed adeguata di impianti» «per permettere lo smaltimento dei rifiuti in uno degli impianti appropriati più vicini ai luoghi di produzione o raccolta al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi». Laddove nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare, ma ne "permette" anche altre, nella disciplina regionale impugnata costituisce la soluzione obbligata.
Tale divieto viene, altresì, a contrastare con lo stesso concetto di “rete integrata di impianti di smaltimento” che presuppone una possibilità di interconnessione tra i vari siti che vengono a costituire il sistema integrato e non ostruzioni determinate da blocchi che impediscano l'accesso ad alcune sue parti.
Il divieto è legittimo, con riferimento ai rifiuti urbani non pericolosi, in quanto è la normativa statale che lo prevede, mentre si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui una fonte di produzione legislativa regionale lo venga a contemplare nei confronti degli altri tipi di rifiuti di provenienza extraregionale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 10/2009).
Inoltre, la norma regionale de qua, nella sua attuale formulazione, è da ritenersi in contrasto anche con l'art. 120, primo comma, delta Costituzione, ai sensi del quale la Regione non può «adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni».
A tal riguardo il Giudice delle leggi ha escluso che le Regioni, sia ad autonomia ordinaria, sia ad autonomia speciale, possano adottare misure volte ad ostacolare “in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni» (sentenze n. 10 del 2009 cit.; n. 164 del 2007; n. 247 del 2006; n. 62 del 2005 e n. 505 dei 2002) e ha reiteratamente ribadito «il vincolo generale imposto alle Regioni dall'art. 120, primo comma, della Costituzione, che vieta ogni misura atta ad ostacolare la libera circolazione delle cose e delle persone fra le Regioni” (sentenza n. 161 del 2005).
Sulla base di tali rilievi, la stessa Corte Costituzionale ha ritenuto che numerose disposizioni regionali, le quali vietavano lo smaltimento di rifiuti di provenienza extraregionale diversi da quelli urbani non pericolosi, fossero in contrasto con l'art. 120 della Costituzione, sotto il profilo dell'introduzione di ostacoli alla libera circolazione di cose tra le regioni, oltre che con i principi fondamentali delle norme di riforma economico-sociale introdotti dal decreto legislativo n. 22 del 1997 e riprodotti dal decreto legislativo n. 152 del 2006.
Anche se l'impugnata disposizione regionale pone dunque, allo smaltimento di rifiuti di provenienza extraregionale un divieto non assoluto, ma relativo - in quanto limitato ai rifiuti speciali—non viene meno l'illegittimità costituzionale della disposizione impugnata. Al riguardo, sempre la Corte Costituzionale ha, difatti, già ritenuto che lo stabilire, da parte di una norma regionale, un divieto sia pur relativo e non assoluto - come quello del caso in esame - «non giustifica una valutazione diversa da quella riservata dalle citate sentenze alle norme allora scrutinate, che imponevano un divieto assoluto» (sentenza n. 505 del 2002).
Alla luce di quanto fin qui rappresentato e del quadro normativo eurounitario e statale, la legge regionale in argomento si pone in contrasto con il parametro costituzionale di cui al secondo comma, lettera s), dell'art. 117 Cost.. in quanto essa interviene in una materia, quella della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema», a cui fa capo la disciplina dei rifiuti, attribuita in via esclusiva alla competenza legislativa dello Stato (ex multis, Corte Cost., sentenze, n. 244 e n. 33 del 2011, n. 331 e n. 278 del 2010, n. 61 e n. 10 del 2009), nella quale rientra la disciplina della gestione dei rifiuti (Corte Cost., sentenza n. 249 del 2009, infracitata), anche quando interferisca con altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale, ferma restando la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (tra le molte, sentenze n. 67 del 2014, n. 285 del 2013, n. 54 del 2012, n. 244 del 2011, n. 225 e n. 164 del 2009 e n. 437 del 2008).
Infatti, il carattere trasversale della materia della tutela dell'ambiente, se da un lato legittima le Regioni 'a provvedere attraverso la propria legislazione esclusiva o concorrente in relazione a temi che hanno riflessi sulla materia ambientale, dall'altro non costituisce limite alla competenza esclusiva dello Stato a stabilire regole omogenee nel territorio nazionale per procedimenti e competenze che attengono alla tutela dell'ambiente e alla salvaguardia del territorio (cfr. Corte Cost., sentenza n. 249 del 2009).
Tale disciplina, «in quanto appunto rientrante principalmente nella tutela dell'ambiente, e dunque in una materia che, per la molteplicità dei settori di intervento, assume una struttura complessa, riveste un carattere di pervasività rispetto anche alle attribuzioni regionali» (sentenza n. 249 del 2009), con la conseguenza che, avendo riguardo alle diverse fasi e attività di gestione del ciclo dei rifiuti e agli ambiti materiali ad esse connessi, la disciplina statale «costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino» (sentenze n. 58 del 2015, n. 314 del 2009, n. 62 del 2008 e n. 378 del 2007).
Ne consegue che “non può riconoscersi una competenza regionale in materia di tutela dell'ambiente”, anche se le Regioni possono stabilire "per il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze livelli di tutela più elevati", pur sempre nel rispetto della normativa statale di tutela dell'ambiente (sentenza n. 61 del 2009)” (sentenza n. 285 del 2013).
L'anzidetta disposizione, nel prevedere poi limitazioni, seppur relative, all'introduzione di rifiuti speciali nel territorio della regione - viola, altresì, l'art. 120 della Costituzione, il quale vieta alle Regioni di adottare provvedimenti che siano di ostacolo alla libera circolazione delle cose.
Per i motivi esposti, si ritiene di dover impugnare l’articolo 32, per violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost. e 120 Cost., in riferimento ai parametri statali interposti dianzi citati.

Per quanto precede si ritiene di dover impugnare la legge in esame ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

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