Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per raccogliere statistiche in forma aggregata e consentire l'accesso a media esterni.
Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcuni contenuti potrebbero non essere disponibili.
Per maggiori informazioni consulta la privacy policy. Acconsenti all'utilizzo di cookie di terze parti?
Modifiche ed integrazioni alla l.r. 19/2002 (norme per la tutela, governo ed uso del territorio – legge urbanistica della Calabria). (16-12-2019)
Calabria
Legge n.61 del 16-12-2019
n.139 del 16-12-2019
Politiche infrastrutturali
/ Rinuncia impugnativa
6-2-2020 /
Impugnata
La legge regionale, che reca modifiche ed integrazioni alla L.R. 19/2002 (Norme per la tutela, governo ed uso del territorio - Legge urbanistica della Calabria, è censurabile con riferimento alle disposizioni contenute negli articoli 1 e 2, che, per i motivi di seguito specificati, violano la competenza esclusiva statale in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera s) della Costituzione e l’articolo 9 della Costituzione che afferma la tutela del valore paesaggistico, oltre a risultare lesive del principio di leale collaborazione che deve informare i rapporti tra lo Stato e le Regioni.
Le medesime disposizioni si pongono altresì in contrasto con l’articolo 9 del DpR 380/2001, testo unico dell’Edilizia, che costituisce principio fondamentale in materia di governo del territorio , violando così l’articolo 117 terzo comma della Costituzione e con l’articolo 13 del Testo unico degli enti locali , d.lgs. n. 167/2000 e quindi con l’articolo 117, sesto comma della Costituzione.
In particolare :
1.La norma contenuta nell’articolo 1 della legge regionale in esame modifica all'articolo 25-bis della L.R. 19/2002 “Norme per la tutela , governo ed uso del territorio – legge urbanistica della Calabria”, aggiungendo a detto articolo, dopo il comma 2, il seguente comma 2 bis :
"2-bis. La Giunta regionale approva con atto deliberativo, previa validazione da parte del Comitato tecnico di co-pianificazione di cui al Protocollo d'Intesa e relativo disciplinare attuativo, le singole attività di cui all'articolo 143, comma 1, del decreto legislativo 22 gennaio 2004 (Codice dei beni culturali) che concorrono all'elaborazione del Piano paesaggistico regionale.
A far data dalla pubblicazione sul BURC della predetta deliberazione di Giunta regionale le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici."
Si premette che, in attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 135, comma 1, e 143, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, la Regione Calabria e il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo hanno avviato sin dal 2012 un rapporto di collaborazione istituzionale finalizzato all’elaborazione congiunta del Piano paesaggistico regionale.
Il suddetto percorso ha già condotto all’adozione del Quadro Territoriale Regionale con valenza paesaggistica (QTRP), approvato dal Consiglio regionale con la deliberazione n. 134 del 1° agosto 2016 (pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Calabria n. 84 del 5 agosto 2016). Il QTRP prevede la successiva redazione di sedici piani paesaggistici d’ambito, destinati a rappresentare gli strumenti di tutela, conservazione e valorizzazione del paesaggio; nelle more dell’approvazione dei predetti strumenti di pianificazione territoriale, sono stabilite apposite norme di salvaguardia, attinenti al sistema delle tutele, alla difesa del suolo e alle previsioni dei rischi a scala territoriale.
Al riguardo, occorre tenere presente che la parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio delinea un sistema organico di tutela paesaggistica, inserendo i tradizionali strumenti del provvedimento impositivo del vincolo e dell’autorizzazione paesaggistica nel quadro della pianificazione paesaggistica del territorio, che deve essere elaborata concordemente da Stato e Regione. Tale pianificazione concordata prevede, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e stabilisce la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
Il legislatore nazionale, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia, ha assegnato al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale che. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore sanciscono infatti l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).
Si tratta di una scelta di principio la cui validità e importanza è già stata affermata più volte dalla Corte costituzionale, in occasione dell’impugnazione di leggi regionali che intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agli strumenti di pianificazione dei Comuni e delle Regioni, eludendo la necessaria condivisione delle scelte attraverso uno strumento di pianificazione sovracomunale, definito d’intesa tra lo Stato e la Regione. La Corte ha, infatti, affermato l’esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte Cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).
Cioò premesso, relativamente alla disposizione regionale contenuta nell’articolo 1, occorre tenere presente che, in base all’articolo 143, comma 1, del Codice dei beni culturali e del paesaggio: “L’elaborazione del piano paesaggistico comprende almeno:
a) ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, mediante l’analisi delle sue caratteristiche paesaggistiche, impresse dalla natura, dalla storia e dalle loro interrelazioni, ai sensi degli articoli 131 e 135;
b) ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’articolo 136, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d’uso, a termini dell’articolo 138, comma 1, fatto salvo il disposto di cui agli articoli 140, comma 2, e 141-bis;
c) ricognizione delle aree di cui al comma 1 dell’articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione;
d) eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a termini dell’articolo 134, comma 1, lettera c), loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d’uso, a termini dell’articolo 138, comma 1;
e) individuazione di eventuali, ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione;
f) analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini dell’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché comparazione con gli altri atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo;
g) individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela;
h) individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile delle aree interessate;
i) individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obiettivi di qualità, a termini dell’articolo 135, comma 3.”.
Ciò posto, la norma in esame prefigura la possibilità che la Regione approvi il piano paesaggistico non già quale strumento complessivo, bensì per “singole attività”, sia pure queste ultime oggetto di previa condivisione da parte del Comitato tecnico di co-pianificazione istituito in accordo con il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.
La suddetta previsione introduce unilateralmente e al di fuori di qualsivoglia condivisione con lo Stato una modalità di approvazione del piano paesaggistico non contemplata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e che confligge direttamente con le previsioni degli articoli 135, 143 e 145 dello stesso Codice, in quanto idonea a depotenziare significativamente il ruolo assegnato al piano dalla disciplina nazionale.
Le disposizioni del Codice di settore ora richiamate concorrono infatti a delineare il ruolo fondamentale del piano paesaggistico quale strumento cardine dell’intera pianificazione territoriale, destinato a costituire il punto di riferimento di tutti gli altri atti di pianificazione settoriale e urbanistica. E, in questo quadro, è parimenti evidente che la funzione stessa del piano richieda necessariamente che le relative disposizioni costituiscano il frutto di una valutazione complessiva del contesto tutelato, nei suoi diversi profili, pena la vanificazione della possibilità per lo strumento pianificatorio di porsi quale effettivo strumento di tutela dei contesti vincolati ed efficace “luogo” di sintesi e di equilibrata valutazione delle istanze di trasformazione del territorio. Le diverse attività mirate all’elaborazione del piano paesaggistico non possono infatti che essere condotte all’interno di una cornice unitaria, tale da assicurare l’elaborazione graduale e la coerenza complessiva del piano, attraverso il progressivo completamento delle specifiche attività di ricognizione, analisi ed individuazione, assicurando che queste, seppur progressivamente elaborate e validate, siano condotte contemporaneamente per tutti i piani paesaggistici d’ambito riferiti all’intero territorio regionale.
L’eventuale approvazione del piano paesaggistico per “singole attività” comporta pertanto un vulnus alla funzione stessa del piano, come tracciata dalle previsioni normative sopra richiamate. La scelta operata dalla Regione, non essendo frutto di previa intesa con lo Stato, si pone inoltre in violazione delle specifiche previsioni di cui all’articolo 135, comma 1, e dell’articolo 143, comma 2, del Codice di settore, così determinando, anche sotto quest’ultimo profilo, la violazione della competenza legislativa esclusiva spettante allo Stato ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
Il depotenziamento del ruolo piano paesaggistico conseguente alla sua parcellizzazione incide inoltre direttamente sull’efficacia del predetto strumento, cardine della tutela del paesaggio, e determina quindi la violazione anche dell’articolo 9 della Costituzione.
2. L’articolo 2 della legge regionale in esame, modifica il comma 2 dell’articolo 52 (Criteri per l’edificazione in zona agricola), con l’aggiunta del seguente periodo:
“Nelle more dell'approvazione dei Piani Strutturali Comunali è consentita l'edificazione di cui al presente articolo anche su di superficie fondiaria inferiore ai 10.000 metri quadrati. Nel caso di asservimento di non contigui ai fini dell'attuazione dei rapporti volumetrici e di utilizzazione residenziale o produttiva è obbligo istituire il vincolo di inedificabilità secondo quanto disposto all'articolo 56 della presente legge.”.
La disposizione regionale risulta censurabile sotto diversi profili:
2.1 In primo luogo occorre tenere presente che l’articolo 52, comma 2, della legge regionale n. 19 del 2002 disponeva, precedentemente alla novella, che “2. Le strutture a scopo residenziale, al di fuori dei piani di utilizzazione aziendale o interaziendale, salvo quanto diversamente e più restrittivamente indicato dai PSC, dai piani territoriali o dalla pianificazione di settore, sono consentite entro e non oltre gli standard di edificabilità di 0,013 mq su mq di superficie utile. Per le sole attività di produttività e di trasformazione e/o commercializzazione di prodotti agricoli coltivati anche nel medesimo fondo, l’indice non può superare 0,1 mq su mq. Il lotto minimo è rappresentato dall’unità aziendale minima definita dal REU, e comunque non inferiore a 10.000 mq così come prescritto dalle Linee Guida della Pianificazione Regionale, fatte salve eventuali superfici superiori prescritte dai comuni.”. La disciplina regionale previgente stabiliva, quindi, che l’edificazione in zona agricola potesse avvenire esclusivamente su lotti della dimensione minima di 10.000 metri quadrati, fatta salva la possibilità per i comuni di prescrivere superfici minime di intervento superiori.
Il principio del lotto minimo di intervento è stato poi ribadito dalle norme del Tomo IV allegato al Quadro territoriale regionale von valenza paesaggistica QTRP (art. 10), laddove si specifica che al di sotto dei 10.000 metri quadrati i comuni hanno facoltà di far realizzare esclusivamente piccoli manufatti per il ricovero delle attrezzature agricole e dalle caratteristiche ed usi non residenziali, stabilendo che : “Nelle more dell’approvazione del Piano Paesaggistico, i Comuni nella fase di redazione dei PSC/PSA provvedono a quantificare l’Unità Aziendale Minima e la corrispondente unità colturale minima, nel rispetto di quanto previsto dagli art. 50, 51 e 52 della L.R. n.19/2002, tenendo conto della facoltà di normare, in forma più restrittiva, ovvero oltre i 10.000 mq, il lotto minimo di intervento, ferme restando le previsioni di cui all’art. 22 lett. b della Legge Regionale 10 agosto 2012, n. 35 e s.m.i. in funzione delle quali gli enti competenti esprimono parere in merito.
Al di sotto dei 10.000 mq i Comuni hanno facoltà di far realizzare esclusivamente piccoli manufatti in legno amovibili, di dimensioni massime max 3,00 * 6,00, per il ricovero delle attrezzature agricole ed assolutamente dalle caratteristiche ed usi non residenziali.”.
In questo contesto, la novella introdotta all’articolo 52 dalla norma in esame introduce una possibilità indiscriminata di edificazione in zona agricola, aprendo potenzialmente la strada allo sfruttamento incontrollato del territorio agricolo. E ciò peraltro senza alcuna espressa limitazione delle edificazioni alle specifiche esigenze inerenti alla conduzione delle aziende agricole, ma potenzialmente anche per scopo residenziale.
La disposizione viola quindi le previsioni degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in quanto si pone in diretto contrasto con le misure di salvaguardia condivise con lo Stato e trasfuse nel QTRP, vanificando così la funzione propria del futuro piano paesaggistico, da elaborare d’intesa, di dettare le prescrizioni di tutela dei contesti vincolati, disciplinando, tra l’altro, la “individuazione delle misure per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile delle aree interessate” (lett. h). La violazione delle predette disposizioni del Codice di settore, costituenti parametro interposto di legittimità costituzionale, comporta quindi la violazione dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.
Sotto altro profilo, la potenziale significativa compromissione dei valori paesaggistici derivante dalla previsione regionale censurata determina anche la violazione dell’articolo 9 della Costituzione.
2.2. La medesima norma contenuta nell’articolo 2 della legge regionale si presta ad ulteriori censure. In disparte la circostanza che la non corretta formulazione della richiamata disposizione, nonché il suo evidente contrasto con le norme transitorie contenute nell’articolo 65 della legge regionale n. 19 del 2002, appaiono rappresentare un sintomo di irragionevolezza dell’intervento modificativo da ultimo apportato dal legislatore regionale con la legge regionale in oggetto, potendo condurre a distorsioni applicative, viene, altresì, in rilievo, nella presente sede, l’ulteriore contrasto con il disposto dell’articolo 9 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Al riguardo, sotto il primo dei cennati aspetti, occorre evidenziare in particolare, nella sentenza n. 107 del 2017, il Giudice delle leggi ha avuto modo di osservare che “7.2.2.– Vero è che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non ogni incoerenza o imprecisione di una norma può venire in questione ai fini dello scrutinio di costituzionalità (sentenze n. 86 del 2017 e n. 434 del 2002). Nondimeno, la stessa è invece censurabile, alla luce del principio di razionalità normativa, qualora la formulazione della stessa sia tale da potere dare luogo ad applicazioni distorte (vedi anche la sentenza n. 10 del 1997) o ambigue (sentenza n. 200 del 2012), che contrastino, a causa dei diversi esiti che essa renda plausibili, il buon andamento della pubblica amministrazione, da intendersi quale ordinato, uniforme e prevedibile svolgimento dell’azione amministrativa, secondo principi di legalità e di buona amministrazione.
7.2.3.– D’altro canto questa Corte ha già chiarito che, a differenza di quanto accade per il giudizio in via incidentale, giudizio concreto e senza parti necessarie, «il giudizio in via principale può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili» (sentenza n. 412 del 2004; nello stesso senso, sentenza n. 3 del 2016) o «prospettate in termini dubitativi o alternativi» (sentenza n. 189 del 2016). Orientamenti, questi, che sebbene elaborati in riferimento ai requisiti di ammissibilità, servono altresì ad evidenziare che nel giudizio in via d’azione vanno tenute presenti anche le possibili distorsioni applicative di determinate disposizioni legislative; e ciò ancor di più nei casi in cui su una legge non si siano ancora formate prassi interpretative in grado di modellare o restringere il raggio delle sue astratte potenzialità applicative (sentenze n. 449 del 2005, n. 412 del 2004 e n. 228 del 2003).
Si è parimenti affermato, con riferimento anche all’impugnativa regionale, che possono risultare costituzionalmente illegittime «per irragionevolezza […] norme statali dal significato ambiguo, tali da porre le Regioni in una condizione di obiettiva incertezza, allorché a norme siffatte esse debbano attenersi nell’esercizio delle proprie prerogative di autonomia» (sentenza n. 160 del 2016).
Ciò vale, a maggior ragione, nel caso in cui l’ambiguità semantica riguardi una disposizione regionale foriera di sostanziali dubbi interpretativi che rendono concreto il rischio di un’elusione del principio fondamentale stabilito dalla norma statale. In questa ipotesi, l’esigenza unitaria sottesa al principio fondamentale è pregiudicata dal significato precettivo non irragionevolmente desumibile dalla disposizione regionale: lungi dal tradursi in un mero inconveniente di fatto, l’eventuale distonia interpretativa, contraddittoria rispetto alla norma statale, costituisce conseguenza diretta della modalità di formulazione della disposizione, che deve essere dichiarata, dunque, costituzionalmente illegittima.”.
Infine, nella sentenza n. 89 del 2019, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che “…«possono trovare ingresso, nel giudizio in via principale, questioni promosse in via cautelativa ed ipotetica, sulla base di interpretazioni prospettate soltanto come possibili, purché non implausibili e comunque ragionevolmente desumibili dalle disposizioni impugnate» (ex multis, sentenza n. 103 del 2018, punto 4.1. del Considerato in diritto). Nel giudizio in via principale possono dunque essere dedotte «anche le lesioni in ipotesi derivanti da distorsioni interpretative delle disposizioni impugnate» (sentenza n. 270 del 2017, punto 4.2. del Considerato in diritto).”.
Quanto al secondo dei profili cui si è accennato, si evidenzia che l’articolo 9 del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che:
“Art. 9 (L) Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica (legge n. 10 del 1977, art. 4, ultimo comma; legge n. 457 del 1978, art. 27, ultimo comma)
1. Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti:
a) gli interventi previsti dalle lettere a), b), e c) del primo comma dell'articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse;
b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell'area di proprietà.
2. Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell'articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo.”.
In proposito, ritenendo, anche per tale aspetto, valide le considerazioni espresse dalla Consulta nelle sentenze sopra richiamate si rappresenta, altresì, che la Corte Costituzionale, avendo evidenziato prima nella sentenza n. 84 del 2017 poi nella sentenza n. 68 del 2018 che sia il comma 1 che il comma 2 dell’articolo 9 del d.P.R. n. 380 del 2001 esprimono principi fondamentali nella materia “governo del territorio”, non potendo essere qualificate come norme di dettaglio, ha avuto modo di precisare che:
“…la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle “zone bianche”, per la finalità ad essa sottesa, ha le caratteristiche intrinseche del principio fondamentale della legislazione statale in materia di governo del territorio, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio, l’ambiente e i beni culturali.
In quest’ottica, la fissazione di standard rigorosi, ma cedevoli di fronte a qualsiasi regolamentazione regionale della materia – sulla falsariga di quanto previsto dalla norma anteriore – rappresenterebbe una soluzione contraddittoria. Come rilevato dal Consiglio di Stato…detta soluzione lascerebbe, infatti, aperta la possibilità che «eventuali legislatori regionali, prodighi di facoltà edificatorie, finiscano con il frustrare la ratio della disciplina in commento, compromettendo in modo tendenzialmente irreversibile interessi di rango costituzionale»: ragione per la quale «l’art. 9 individua un principio fondamentale della legislazione statale tale da condizionare necessariamente quella regionale a regolare solo in senso più restrittivo l’edificazione» (Consiglio di Stato, sezione quarta, 12 marzo 2010, n. 1461).” (sentenza n. 84 del 2017, punto 6.3 del Considerato in diritto)
A ciò si aggiunga che, ancora nella sentenza n. 84 del 2017, richiamata nella sentenza n. 68 del 2018, il Giudice delle leggi ha espressamente chiarito che:
- la funzione della norma di cui al comma 1 dell’articolo 9 del d.P.R. n. 380 del 2001 è quella “…di impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale. Funzione rispetto alla quale la specifica previsione di livelli minimi di tutela si presenta coessenziale, in quanto necessaria per esprimere la regola (al riguardo, sentenza n. 430 del 2007).” (sentenza n. 84 del 2017, punto 7 del Considerato in diritto e sentenza n. 68 del 2018, punto 9.1 del Considerato in diritto);
- la medesima funzione “…deve essere ascritta anche al comma 2 del citato art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, là dove individua e delimita la tipologia di interventi edilizi realizzabili in assenza di piani attuativi, che siano qualificati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto necessario per l’edificazione. Anche in tal caso la norma in esame mira a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica intesa nel suo complesso, evitando che, nelle more del procedimento di approvazione del piano attuativo, siano realizzati interventi incoerenti con gli strumenti urbanistici generali e comunque tali da compromettere l’ordinato uso del territorio.” (sentenza n. 68 del 2018, punto 9.1 del Considerato in diritto).
Pertanto, alla luce dei dicta della Corte Costituzionale, sia il comma 1 che il comma 2 dell’articolo 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio, l’ambiente e i beni culturali, sono posti a presidio di valori di chiaro rilievo costituzionale essendo volti ad impedire interventi suscettibili di compromettere l’ordinato uso del territorio e determinare la consumazione del suolo nazionale.
2.3 La previsione contenuta nell’articolo 2 della legge in esame, infine, seppure costituisce una disciplina transitoria che si applica nelle more dell’adozione dei Piani strutturali comunali, risulta lesiva delle prerogative dei Comuni. L’articolo 13 del Testo Unico degli Enti Locali (d.lgs.n. 267/2000) , infatti, attribuisce ai comuni tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, tra l’altro, nel settore dell'assetto ed utilizzazione del territorio. Si evidenzia quini una violazione dell’articolo 117, sesto comma della Costituzione, in che riconosce a detto ente territoriale potestà regolamentare in ordine alla disciplina dello svolgimento delle funzioni attribuite.
3. Le previsioni delle disposizioni sopra descritte contenute negli articoli 1 e 2 della legge regionale n. 61 del 2019 comportano anche la violazione del principio costituzionale di leale collaborazione, in quanto costituiscono il frutto di scelte assunte unilateralmente dalla Regione, al di fuori del percorso già avviato con lo Stato per la condivisione delle scelte concernenti la pianificazione dei beni sottoposti a tutela paesaggistica; percorso che ha già condotto all’adozione del QTRP.
Va ricordato al riguardo che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, il principio di leale collaborazione “deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni”, atteso che “la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti” (così in particolare, tra le tante, Corte cost. n. 31 del 2006). In particolare, la Corte ha chiarito che “Il principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto” (così ancora la sentenza richiamata).
La scelta della Regione Calabria di assumere iniziative unilaterali, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente avviato con lo Stato si pone, pertanto, in contrasto anche con il predetto principio.
Per i motivi sopra esposti la legge regionale, limitatamente alle disposizioni contenute negli articoli 1 e 2, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.
A 50 anni dall'istituzione delle Regioni a statuto ordinario, un volume approfondisce lo stato ed i tempi di sviluppo economico e sociale conseguito a livello regionale, le modalità di confronto tra Stato e Regioni, le opportunità di finanziamento da parte dell'Unione Europea e altri temi rilevanti sul ruolo delle Regioni.
Il Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie è promotore del Progetto ReOPEN SPL, finalizzato a supportare gli enti territoriali con competenze nei settori di acqua, rifiuti e trasporti, anche attraverso attività di ricerca e analisi territoriale.
Un approfondimento sulle Commissioni paritetiche di ciascuna Regione a statuto speciale, con i Decreti di costituzione e l’elenco dei decreti legislativi concernenti le norme di attuazione