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Legge finanziaria regionale adottata a norma dell'articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l'approvazione del bilancio di previsione della regione Emilia Romagna per l'esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010 - 2012 (22-12-2009)
Emilia Romagna
Legge n.24 del 22-12-2009
n.223 del 24-12-2009
Politiche economiche e finanziarie
19-2-2010 /
Impugnata
La legge in esame è illegittima per i motivi che di seguito si espongono.
L'articolo 35, modifica l'articolo 36 della l.r. n. 20/2006 in materia di autorizzazione all’immissione in commercio di farmaci, ed introduce il comma 3-bis. Tale comma prevede che “[…] la Regione, avvalendosi della Commissione regionale del farmaco, può prevedere, in sede di aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale, l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), quando tale estensione consenta, a parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la libertà di scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN”.
Così disponendo la norma viola alcune norme statali di riferimento, che espressamente vietano dell’immissione in commercio di farmaci non aventi l’autorizzazione. Nessun medicinale, infatti, ai sensi dell’articolo 6 del d. lgs. n. 219/06, di recepimento di direttiva comunitaria, può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA. La normativa statale (art. 1, d.l. n. 536/96) prevede, ancora, che qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale, i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa. Il legislatore regionale, quindi, eccede dalla sua competenza legislativa in materia di tutela della salute laddove prescinde dai principi fondamentali rinvenibili nel sistema della legislazione statale vigente (cfr. in questo senso, sent. Corte Cost. n. 282/02); non è, infatti, rilasciata alla discrezionalità del legislatore la scelta di un farmaco non avente l’autorizzazione all’immissione in commercio, nemmeno avvalendosi del parere della commissione regionale del farmaco, essendo necessario che l’autorizzazione arrivi dall’AIFA o dalla Commissione europea su parere dell’EMEA. Soltanto in singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un'indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata (art. 3, comma 2, d.l. n. 23/98), ma tale disposizione non è applicabile al ricorso a terapie farmacologiche a carico del Servizio sanitario nazionale, che, nell'ambito dei presidi ospedalieri o di altre strutture e interventi sanitari, assuma carattere diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle condizioni di autorizzazione all'immissione in commercio, quale alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica indicazione al trattamento (cfr. art. 1, comma 796, lett. z), l. n. 296/06, l.f. 2007). La norma regionale in esame, inoltre, nel tentativo di regolare materie quali quella della utilizzabilità di un medicinale al di là delle sue indicazioni terapeutiche, impatta anche con i livelli essenziali di assistenza, per cui è fondamentale, pertanto, la garanzia di una unità giuridica ed economica.
Il legislatore regionale, quindi, così disciplinando eccede dalla sua competenza e viola i principi fondamentali in materia di tutela della salute, di cui all'articolo 117, comma 3 della Costituzione (principi sopra dettagliatamente indicati); incidendo anche sui livelli essenziali di assistenza viola l'articolo 117, comma 2, lett. m).
- L'articolo 48 si suddivide in 4 commi.
Il primo comma, “riconosce a tutti i cittadini di Stati appartenenti alla Unione europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici e privati in condizioni di parità di trattamento e senza discriminazioni, diretta o indiretta, di razza, sesso, lingua, orientamento sessuale, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.”. Tale norma, nel riconoscere il diritto alla fruizione dei servizi privati senza discriminazioni e in condizioni di parità, stabilisce, l'obbligo per gli operatori economici privati di non rifiutare la loro prestazione. La norma regionale prevede in sostanza un’ipotesi di obbligo legale a contrarre – obbligo già previsto in via generale dal legislatore statale all’art. 187 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (“Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza”) – e, in tal modo, come già sottolineato per casi analoghi dalla Corte Costituzionale, “introduce una disciplina incidente sull’autonomia negoziale dei privati e, quindi, su di una materia riservata, ex art. 117, comma secondo, lett. l), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato” (sent. n. 253/2006). Per motivi analoghi è già stata oggetto di impugnazione governativa la l.r. Liguria n. 52/09.
Anche il secondo comma, dell'articolo in esame, è illegittimo in quanto: "la Regione assume le nozioni di discriminazione diretta ed indiretta previste dalle direttive del Consiglio dell’Unione europea 2000/43/CE (Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica), 2000/78/CE (Direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) e Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).". Così disponendo la Regione, recepisce dalla normativa comunitaria la nozione di discriminazione diretta ed indiretta; l'articolo 16, comma 1, della l. n. 11/05, tuttavia, consente alle regioni di dare immediata attuazione alle direttive comunitarie, esclusivamente nelle materie di propria competenza. La Regione, invece, recependo una direttiva in una materia che esula dalla sua competenza, si pone in contrasto con l'articolo 16 della l. n. 11/05 violando l'articolo 117, comma 5, della Costituzione. Il concetto di discriminazione attiene, infatti, alla materia "ordinamento civile", di esclusiva competenza statale, ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lett. l), a cui lo Stato ha dato attuazione anche attraverso il d. lgs. n. 215/03 e con il d. lgs. 216/03, restringendo leggermente la nozione di discriminazione contenuta nelle direttive comunitarie succitate. Il divieto di discriminazione e l'eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, trova il suo fondamento nell'articolo 3 della Costituzione. Quest'ultimo, invero, laddove pone in capo alla Repubblica l'obbligo di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, non può che riferirsi allo Stato, unico garante su tutto il territorio nazionale di uniformità e parità di trattamento. Infatti rimettere alle singole leggi regionali la possibilità di disciplinare in materia di discriminazione, potrebbe comportare il rischio di avere diverse forme di tutela sull’intero territorio nazionale, con evidenti pregiudizi ed ingiustificate difformità normative.
Per quanto attiene al terzo comma, quest'ultimo stabilisce che "I diritti generati dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si applicano alle singole persone, alle famiglie e alle forme di convivenza di cui all’articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente).". Il richiamo alle “forme di convivenza” trova la propria ragione nell’art. 4 del d.P.R. n . 223 del 1989, che, nel definire la “famiglia anagrafica”, vi ricomprende anche l’ “insieme di persone legate da vincoli affettivi”. Tale definizione, tuttavia, è stata più volte considerata spendibile ai soli fini anagrafici: sia giurisprudenza dei TAR (cfr. T.a.r. Veneto, Sentenza 27 agosto 2007, n.2786) che del Consiglio di Stato hanno più volte stabilito che la nozione di famiglia anagrafica è ben distinta da quella c.d. di famiglia nucleare o civile, con la conseguenza che i due tipi di famiglia possono anche non coincidere. Tale distinzione concettuale tra famiglia nucleare e famiglia anagrafica è stata in particolare ribadita dal Consiglio di Stato, Sez. V, (sentenza 13 luglio 1994 n. 770), che ha evidenziato come mentre la famiglia anagrafica è istituto giuridico esclusivamente finalizzato alla raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle persone che hanno fissato nel Comune la propria residenza (cfr. art. 1 D.P.R. 223 del 1989 cit.), la nozione giuridica di famiglia nucleare, ossia componibile da genitori e da figli, risulta presupposta e tutelata nel nostro ordinamento interno dagli artt. 29, 30 e 31 Cost., dagli artt. 144 e 146 c.c. e dall’art. 570 c.p., e - sotto il profilo della necessaria conformazione dell’ordinamento medesimo alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (lo ius gentium richiamato dall’art. 10, primo comma, Cost.) - anche dall’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dall’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nonchè dall’art. 10 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali reso a sua volta esecutivo nell’ordinamento italiano con L. 25 ottobre 1977 n. 881 (in riferimento alla nozione di famiglia cfr anche CdS, sez. V, sent. n. 6400/2007, e n. 2096/2006). L'impossibilità di equiparare la famiglia anagrafica, dove rientrerebbero anche quelle forme di convivenza che si risolvono nella c.d. famiglia di fatto, con la famiglia di diritto si evince anche dalla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale. La Corte, infatti, "ha ripetutamente posto in evidenza la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, individuando le ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi nella circostanza che il rapporto coniugale trova tutela diretta nell’art. 29 Cost. (ordinanza n. 121 del 2004)." (cfr., in ultimo, sent. Corte Cost. n. 86/2009).
La Regione, invece, invocando il disposto dell'articolo 4 del DPR 223/89, vorrebbe estendere l'applicazione dei diritti generati dalla legislazione regionale nell'accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi oltre che per le singole persone e per le famiglie di diritto, anche alle famiglie di fatto e, comunque, alle altre forme di convivenza, richiamando artificiosamente il concetto di famiglia anagrafica; così disponendo, viola il disposto dell'articolo 29 della Costituzione; eccede, inoltre, dalla sua competenza, violando l'articolo 117, comma 2, lett. i) ed l), della Costituzione. In subordine si rappresenta ancora che la Corte Costituzionale con sent. n. 253/06, ha riconosciuto la possibilità di prevedere misure di sostegno a favore di determinate categorie di persone nell'ambito delle materie riservate alla propria competenza legislativa.
La norma in esame, invece, riconoscendo indistintamente l'applicazione dei diritti generati dalla legislazione regionale nell'accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi anche a forme di convivenza diverse dalla famiglia, eccede dalla competenza legislativa regionale, invadendo quella statale e violando gli articoli sopra richiamati.
Il quarto comma, che prevede la promozione di “azioni positive per il superamento di eventuali condizioni di svantaggio derivanti da pratiche discriminatorie”, seppur norma programmatica priva di immediato rilievo costituzionale, è strettamente connesso al primo comma e segue di conseguenza l’interpretazione attribuita a quest’ultimo.
Per i suddetti motivi si ritiene di proporre questione di legittimità costituzionale.
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