Dettaglio Legge Regionale

Misure di salvaguardia per la tutela del riccio di mare. (18-4-2023)
Puglia
Legge n.6 del 18-4-2023
n.38 del 20-4-2023
Politiche infrastrutturali
15-6-2023 / Impugnata
La legge regionale Puglia del 18 aprile 2023, n.6 che reca misure di salvaguarda per la tutela del riccio di mare eccede dalle competenze regionali ed è quindi censurabile relativamente alle disposizioni contenute agli articoli 1 e 2 che, per le ragioni che di seguito si illustrano, ponendosi in contrasto con la disciplina dettata dalla legge 14 luglio 1965, n. 963, e successive modifiche recante la disciplina della pesca, nonché con il Decreto del Ministero delle Risorse Agricole Alimentari e Forestali del 12 gennaio 1995 recante la Disciplina della pesca del riccio di mare, risulta violare la competenza esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” di cui all’articolo 117, secondo comma lettera s) della Costituzione.

Le medesime disposizioni inoltre ponendosi in contrasto con l’ex articolo 2 del Codice della navigazione, risultano violare la competenza esclusiva dello Stato in materia di politica estera e rapporti internazionali dello Stato e rapporti dello Stato con l’Unione europea di cui all’articolo 117, secondo comma lettera a).

Le norme regionali in parola testualmente recitano:
“Art. 1 Finalità 1. Con la presente legge la Regione Puglia intende favorire il ripopolamento del riccio di mare nei mari regionali, garantendo un periodo di riposo della specie, preservando la risorsa ittica e scongiurando il rischio di estinzione dovuto ai massicci prelievi.”
Art. 2 Termini 1. Nel mare territoriale della Puglia, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è vietato il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto, lo sbarco e la commercializzazione degli esemplari di riccio di mare (Paracentrotus lividus) e dei relativi prodotti derivati freschi, per un periodo di tre anni. 2. La commercializzazione del riccio di mare non è vietata per gli esemplari provenienti (con certificazioni e tracciabilità secondo legge) da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia.!

Tali disposizioni, in particolare, risultano costituzionalmente illegittime, in quanto contrastanti con la competenza esclusiva statale in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” (Art. 117, comma 2, lett. s), Cost), materia, quest’ultima “trasversale” e “prevalente”, che si impone integralmente nei confronti delle Regioni e Province autonome che non possono contraddirla, spettando allo Stato, per costante giurisprudenza costituzionale, la competenza a fissare livelli di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale.
La giurisprudenza costituzionale, infatti, è costante nell’affermare, da un lato, che la materia “tutela dell’ambiente” rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, appunto, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost e inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto; dall’altro, che si tratta di una “materia trasversale”, titolo che legittima lo Stato ad adottare disposizioni a tutela di un valore costituzionalmente protetto, anche in “campi di esperienza” – le cosiddette “materie” in senso proprio – attribuiti alla competenza legislativa regionale. Ne deriva che le disposizioni legislative statali adottate in tal ambito fungono da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, e le Province autonome, dettano nei settori di loro competenza, essendo ad esse consentito soltanto, eventualmente, incrementare i livelli della tutela ambientale, senza, però, compromettere il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma statale (ex multis sentenza n. 197 del 2014, punto 3.2 del Considerato diritto). Il carattere trasversale della materia della tutela dell’ambiente, se da un lato, legittima gli enti territoriali a provvedere attraverso la propria legislazione esclusiva o concorrente in relazione a temi che hanno riflessi sulla materia ambientale, dall’altro costituisce limite alla competenza esclusiva dello Stato a stabilire regole omogenee nel territorio nazionale per procedimenti e competenze che attengono alla tutela dell’ambiente e alla salvaguardia del territorio (Sentenza Corte Cost. n. 249 del 2009).

Operata tale premessa, la finalità per la quale è stata emanata la legge in parola è quella, prevista all’articolo 1 che dispone “[…] favorire il ripopolamento del riccio di mare nei mari regionali, garantendo un periodo di riposo della specie, preservando la risorsa ittica e scongiurando il rischio di estinzione dovuto ai massicci prelievi […]”.
Detta finalità, con l’espresso richiamo all’obiettivo di preservare la specie contro il rischio di estinzione, si può ricondurre alla più generale “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s) della Costituzione, la cui competenza legislativa è affidata, come noto, in via esclusiva allo Stato.

Con il successivo articolo 2, la legge regionale in parola vieta per un periodo di tre anni dall’entrata in vigore della stessa, quindi fino al 5 maggio 2026, “nel mare territoriale della Puglia” il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto e la commercializzazione di esemplari di riccio di mare e dei relativi prodotti derivati freschi. Detti divieti non operano per gli esemplari provenienti, con certificazioni sulla tracciabilità, da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia”.

In Italia, la normativa sulla pesca è disciplinata dalla legge 14 luglio 1965, n. 963, e successive modifiche. La Regione Puglia con la legge in argomento, interviene sulla specifica materia di cui al Decreto dell’allora Ministero delle Risorse Agricole Alimentari e Forestali 12 gennaio 1995 recante “Disciplina della pesca del riccio di mare”, introducendo, in ambito regionale, la misura più restrittiva del divieto assoluto, valido per un periodo di tre anni, di prelievo, raccolta, detenzione, trasporto, sbarco e commercializzazione di quegli esemplari.
In materia di “pesca”, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 213/2006 ebbe modo di affermare come la specificità del settore fosse tale da non poter essere ritenuta «riconducibile o assorbita da uno o più ambiti chiaramente rimessi alla competenza legislativa esclusiva o concorrente (art. 117, secondo e terzo comma, Cost.)», ma che dovesse essere ritenuta «materia oggetto della potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.».

Nella stessa occasione, la Corte Costituzionale ebbe anche modo di chiarire come, in linea con lo sviluppo legislativo, andasse superata la bipartizione tra “pesca marittima” e “pesca nelle acque interne” ? fatta propria dalla Costituzione del 1948 ? quale criterio per definire l’ambito della competenza legislativa e amministrativa dello Stato e delle Regioni.
La definizione di pesca accolta dal nostro ordinamento ripropone, a livello nazionale, quella offerta dal legislatore comunitario nel Regolamento n. 1380/2013 relativo alla politica comune della pesca.
Nel rintracciare i confini della materia, infatti, occorre considerare che il settore della pesca è stato profondamente inciso dalle regole comunitarie, volte fondamentalmente garantire un uso razionale delle risorse ittiche, con conseguente aumento d’attenzione per gli aspetti di tutela ambientale ad essa connessi e un forte ridimensionamento del ruolo delle normative nazionali.

Il particolare rapporto tra l’attività ittica e l’ambiente ? riassumibile nella constatazione che «le risorse alieutiche sono sì rinnovabili, ma anche esauribili e pertanto vanno gestite adattando il tasso di prelievo alla loro capacità di rinnovarsi» ? si è tradotto, sul piano normativo, in una serie di regole, nazionali ma, soprattutto, d’origine europea, che operano come limiti in capo agli operatori del settore e il cui rispetto dovrebbe garantire il mantenimento di questo delicato equilibrio ambientale.

La tendenza espansiva della materia “tutela dell’ambiente” viene appunto confermata anche nella sentenza n. 9 del 16 gennaio 2013 della Corte Costituzionale, sia pure in materia di ripartizione della quota complessiva di cattura del tonno rosso, in occasione della quale la Corte, pur riconoscendo in capo alla Regione la titolarità della «competenza primaria nella materia della pesca», riconduce l’oggetto del decreto impugnato alla materia “ambiente ed ecosistema” di competenza legislativa esclusiva dello Stato. «Detta competenza ? ricorda la Corte richiamando le sue sentenze precedenti n. 278/2012 e n. 378/2007 ? «si riferisce all’ambiente ed all’ecosistema in termini generali ed onnicomprensivi», sicchè «quando il carattere trasversale della normativa in tema di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema comporta fenomeni di sovrapposizione ad altri ambiti competenziali», la prevalenza deve essere assegnata alla legislazione statale rispetto a quella spettante alle Regioni o alle Province autonome, nelle materie di propria competenza trasversalmente intercettate. Anche nel caso in esame, pertanto, secondo la Corte «i profili che incidono sulla disciplina della pesca appaiono strumentali all’obiettivo perseguito, consistente proprio nella salvaguardia dell’ecosistema».
Pertanto, le descritte previsioni regionali eccedono dalle competenze regionali, andando a violare l’articolo 117, secondo comma, lettera s) della Costituzione che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, materia nella quale ricade la disciplina del fermo di pesca, come affermato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n.9 del 2013.
Le disposizioni regionali risultano, altresì, invasive della competenza esclusiva dello Stato in materia di politica estera e rapporti internazionali dello Stato e rapporti dello Stato con l'Unione europea di cui all’articolo 117, secondo comma lettera a), atteso che lo spazio marino è precluso alla competenza regionale in quanto soggetto anche ad interessi internazionali e a discipline dettate dal diritto dell’Unione europea.

Il presupposto alla base della legge in parola è dato dalla configurabilità di un mare territoriale regionale, appartenente alla Regione Puglia, quale ambito entro il quale la stessa Regione sarebbe abilitata ad esercitare la propria potestà normativa.
La nozione di “mare territoriale regionale” è infatti sconosciuta al nostro ordinamento e non appare dunque possibile equiparare al territorio regionale (per come delimitato dai relativi confini) la fascia marina antistante alle singole coste regionali (di larghezza di 12 miglia, corrispondente all’estensione del mare territoriale ex art. 2 del Codice della navigazione).

A monte dell’intero discorso si pone l’ampia e più generale questione relativa alla competenza delle Regioni e degli enti locali sulle acque costiere, dunque entro le dodici miglia.

Uno degli argomenti su cui l’orientamento della Corte costituzionale ha avuto un andamento mutevole è quello relativo alle competenze delle Regioni sul mare territoriale.

La giurisprudenza in argomento è stata per lungo tempo caratterizzata dalle sentenze n. 23 del 1957, n. 49 del 1958, n. 21 del 1968 e n. 102 del 2008; uniche decisioni in materia di competenza legislativa delle Regioni sul mare territoriale fino alla più recente pronuncia n. 39 del 2017.
I relativi procedimenti sono stati tutti originati da controversie tra Stato e Regioni sorte in ordine allo sfruttamento, a vario titolo, delle acque costiere (per finalità di pesca, prelievo fiscale sugli ormeggi delle imbarcazioni da diporto e, soprattutto, ricerca e coltivazione in mare di idrocarburi liquidi e gassosi).
Sul versante opposto rispetto alle sentenze che, sia prima che dopo la revisione costituzionale del 2001, hanno avanzato la prospettiva di una competenza regionale sul mare territoriale, si colloca innanzitutto la sentenza n. 21 del 1968, pronunciata sotto la vigenza dell’originario art. 117 Cost..
In tale decisione la Corte ha precisato che quello dell'esistenza di un mare territoriale regionale altro non è se non problema di esistenza, fra le competenze regionali, di singole materie aventi un oggetto che implica l'utilizzazione di quel mare” (Corte cost., 17-04-1968, n. 21). Richiamando la sentenza n. 27 del 1953, ha pure precisato che l’attribuzione di una competenza in materia di pesca marittima non implica il riconoscimento dell’esistenza di un mare territoriale regionale o la possibilità di esercitare poteri su quel mare, sia pure limitatamente alla pesca (Corte cost., 17-04-1968, 28) n. 21).

Con la sentenza n.21 del 1968, la Corte ha, inoltre, operato una distinzione tra il mare territoriale e il fondo o il sottofondo sottostante al mare territoriale, evidenziando come la corrispondente differenziazione del mare si rifaccia ad una varia natura e ad una diversa intensità dei poteri dello Stato, che attengono alla difesa, alla polizia della navigazione, alla vigilanza doganale, e via enumerando, mentre sul fondo e sul sottofondo marino si esplicano poteri di contenuto e di intensità uguali per tutta la fascia che va dalla linea della bassa marea fino al limite esterno della piattaforma, con la conseguenza che la disciplina del fondo e del sottofondo non potrebbe che essere rimessa alla potestà legislativa statale.
Infatti, “la condizione giuridica differenziata del mare trova fondamento in una diversità di funzione dei suoi vari tratti, là dove una sola è la funzione del fondo e del sottofondo marino; e la distinzione del mare territoriale della zona contigua e dell'alto mare è rilevante soltanto nella misura in cui lo è secondo il diritto internazionale, il quale non fa prevedere, per la piattaforma continentale, l'instaurazione di trattamenti diversi a seconda della sua posizione geografica” (Corte cost. 17-04-1968, n. 21).

A conclusioni analoghe la Corte è giunta più recentemente, e questo nonostante il quadro costituzionale profondamente mutato fin dal 2001. Infatti, con la sentenza n. 39 del 2017, sorta da un ricorso promosso dallo Stato nei confronti di una legge regionale abruzzese che, con la finalità di tutelare l’ambiente e l’ecosistema, disponeva il divieto delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle zone di mare poste entro le dodici miglia marine dalla linea di costa, i Giudici costituzionali hanno sostanzialmente confermato l’orientamento espresso nel 1968, ribadendo che “sul fondo e sul sottofondo marino si esplicano poteri di contenuto e di intensità uguali per tutta la fascia che va dalla linea della bassa marea fino al limite esterno della piattaforma, circostanza che non consente di riconoscere alle Regioni una competenza neppure con riguardo alle attività che possono esercitarsi sulla porzione di fondo e di sottofondo sottostante al mare territoriale”.

Alla luce delle precisazioni fornite dalla Corte costituzionale, non sembra giustificabile una competenza legislativa generalizzata che si motivi per il mero riferimento al mare territoriale regionale, non rilevandosi una tale ripartizione dello spazio marittimo.
In particolare, non sembra possibile equiparare al territorio regionale (per come delimitato dai relativi confini) la fascia marina (di larghezza di 12 miglia, corrispondente all’estensione del mare territoriale ex art. 2 Codice di Navigazione) antistante alle singole coste regionali.

La nozione di mare territoriale è accolta dal diritto internazionale e interno, ma non potrebbe essere invocata in ambito interno per una segmentazione della relativa fascia marittima tra plurime autorità regionali.
Il mare piuttosto, in ambito internazionale e interno, è soggetto ad una ripartizione differenziata in ragione delle diverse esigenze di tutela all’uopo perseguite: a titolo esemplificativo, può aversi una perimetrazione rilevante ai fini della pesca, incentrata su aree definite in ambito internazionale (Allegato 1 Regolamento (UE) n. 1343/2011), ovvero una ripartizione rilevante per circoscrivere la competenza dell’autorità marittima, incentrata in zone marittime, compartimenti e circondari (art. 16 c.n.).

Trattasi, in ogni caso, di ripartizioni che non tengono conto di asseriti (non esistenti) confini marittimi regionali, essendo determinate dal particolare obiettivo di interesse generale alla base della loro previsione.

In particolare, nel caso della pesca, emerge l’esigenza che una ripartizione delle aree marine sia correlata all’aspetto morfologico ed ecologico del mare, con riferimento alla varietà di habitat, alle condizioni ambientali e alle comunità biologiche presenti, che debbono essere valutate unitariamente, in una ottica sovra regionale, anche perché in relazione ad ambiti marini prospicienti le coste di più Regioni.
Ugualmente, con riguardo alla ripartizione in zone marittime, compartimenti e circondari, essa tiene conto di finalità amministrative, ai fini dell’organizzazione degli ambiti di intervento dell’autorità marittima.
Ciò posto, a fronte di ripartizioni del mare territoriale che prescindono dall’elemento regionale, non sembra possibile configurare un mare territoriale regionale e, pertanto, non pare ammissibile l’esercizio della potestà legislativa regionale che si giustifichi per il mero riferimento ad un ambito marittimo (regionale) non predefinito a livello statale o internazionale.

Né la Regione potrebbe autodeterminare i limiti territoriali per l’esercizio della propria potestà legislativa, introducendo la nozione giuridica di mare territoriale regionale: non costituendo la Regione un ente sovrano, i limiti di esistenza della potestà regionale non potrebbero che essere posti da fonti sovraordinate (la stessa modifica dei confini territoriali è soggetta ad un procedimento rinforzato legislativo ex art. 132 Cost., a dimostrazione dell’indisponibilità, per l’ente regionale, dei limiti territoriali entro cui esercitare le proprie potestà pubbliche), che allo stato non operano una ripartizione regionale del mare territoriale.

Un riconoscimento implicito del “mare territoriale” avrebbe delle ricadute non solo sulle previste competenze dell’Amministrazione centrale in materia di gestione della risorsa, ma anche confliggere con la competenza esclusiva dell’Unione europea, in materia di pesca, sulle acque unionali che ricomprendono, come noto, le acque territoriali dei Paesi membri.
Prerogativa che trova giustificazione nel fatto che la risorsa da gestire, non può avere una connotazione geografica specifica, atteso che per è sua natura non stanziale ma mobile.

Pertanto, la legge regionale in parola, non sembra presentare alcun elemento di collegamento con il territorio pugliese, non regolando l’uso del territoriale regionale e presupponendo una ripartizione marittima regionale inesistente.

Per le ragioni sopra illustrate, la legge regionale, con riguardo alle disposizioni sopra indicate, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.


« Indietro