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Modifica ed integrazione alla L.R. 29.7.2011, n. 23 “Riordino delle funzioni in materia di aree produttive” e modifica alla L.R. 17.12.1997, n. 143 “Norme in materia di riordino territoriale dei Comuni: Mutamenti delle circoscrizioni, delle denominazioni e delle sedi comunali. Istituzione di nuovi Comuni, Unioni e Fusioni” (27-3-2014)
Abruzzo
Legge n.15 del 27-3-2014
n.14 del 9-4-2014
Politiche infrastrutturali
6-6-2014 /
Impugnata
La legge regionale della Regione Abruzzo n. 15/2014, che detta norme di integrazione e modifica di precedenti leggi regionali in materia di riordino delle funzioni in materia di aree produttive e riordino territoriale dei Comuni, presenta profili di illegittimità costituzionale per le seguenti motivazioni.
In via preliminare, va considerata la questione relativa all’esercizio del potere dell’organo legislativo regionale in casi di scioglimento dell'assemblea regionale per fine legislatura, con specifico riferimento all’approvazione della legge regionale in esame.
Con la legge costituzionale n. 1/1999 la disciplina del sistema elettorale e dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità è stata devoluta al legislatore regionale. In particolare detta legge costituzionale ha attribuito allo statuto ordinario la definizione della forma di governo e l’enunciazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione, in armonia con la Costituzione (art. 123, primo comma, Cost.). Nel contempo, la disciplina del sistema elettorale e dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità è stata demandata allo stesso legislatore regionale, sia pure nel rispetto dei princìpi fondamentali fissati con legge della Repubblica, «che stabilisce anche la durata degli organi elettivi» (art. 122, primo comma, Cost.).
L’articolo 86, comma 3, dello Statuto della regione Abruzzo testualmente recita: “in caso di scioglimento anticipato e di scadenza della legislatura, il Consiglio e l’Esecutivo regionale sono prorogati sino alla proclamazione degli eletti nelle nuove elezioni, indette entro tre mesi dal Presidente della Giunta, secondo le modalità definite dalla legge elettorale”.
La Corte Costituzionale in più occasioni ha riconosciuto che, anche in assenza di specifiche disposizioni statutarie, nel periodo antecedente alle elezioni per la loro rinnovazione e fino alla loro sostituzione, deve ritenersi che i Consigli Regionali, dispongano «di poteri attenuati confacenti alla loro situazione di organi in scadenza, analoga, quanto a intensità di poteri, a quella degli organi legislativi in prorogatio» (cfr. sentt. n. 468/1991; 515/1995; 196/2003; 68/2010).
Nel periodo pre-elettorale si verifica, in sostanza, una fase di depotenziamento delle funzioni del Consiglio regionale, la cui ratio è stata individuata dalla giurisprudenza costituzionale nel principio di rappresentatività connaturato alle assemblee consiliari regionali, in virtù della loro diretta investitura popolare e della loro responsabilità politica verso la comunità regionale.
L’istituto della prorogatio, come chiarito nella sentenza n. 515/1995, è volto a coniugare il principio di rappresentatività politica del Consiglio Regionale «con quello della continuità funzionale dell’organo». Questa esigenza di continuità funzionale porta ad escludere che il depotenziamento possa spingersi fino a comportare un’indiscriminata e totale paralisi dell’organo stesso, e consente al Consiglio Regionale di deliberare in circostanze straordinarie o di urgenza, o per il compimento di atti dovuti o di ordinaria amministrazione.
Tale orientamento giurisprudenziale è stato ribadito e specificato nella sentenza n. 68/2010, con cui la Consulta ha sottolineato che «nell’immediata vicinanza al momento elettorale, pur restando ancora titolare della rappresentanza del corpo elettorale regionale, il Consiglio regionale non solo deve limitarsi ad assumere determinazioni del tutto urgenti o indispensabili, ma deve comunque astenersi, al fine di assicurare una competizione libera e trasparente, da ogni intervento legislativo che possa essere interpretato come una forma di captatio benevolentiae nei confronti degli elettori».
Pertanto, la legge in esame potrebbe essere ritenuta legittima soltanto laddove la sua adozione fosse giustificata dalla sussistenza di presupposti di urgenza e di indifferibilità, ovvero laddove la medesima costituisse un atto dovuto.
La Corte Costituzionale, al riguardo, ha affermato che spetta al Consiglio Regionale «selezionare le materie da disciplinare in conformità alla natura della prorogatio, limitandole ad oggetti la cui disciplina fosse oggettivamente necessaria ed urgente» e ha fatto riferimento ai lavori preparatori per verificare se fossero state addotte «specifiche argomentazioni in tal senso» (sentenza n. 68/2010, par. 4.5.).
Possono quindi essere approvati in regime di prorogatio solo gli atti costituzionalmente dovuti, quali il recepimento di una Direttiva comunitaria direttamente vincolante per le Regioni o progetti di legge che presentano i caratteri dell’indifferibilità ed urgenza, quali ad esempio il bilancio di previsione, l’esercizio provvisorio o una variazione di bilancio.
L’urgenza ed indifferibilità oltre a dover essere adeguatamente motivata, deve essere volta ad eliminare le situazioni di danno senza limitare la libertà di scelta dell’organo legislativo quando avrà riacquistato la pienezza dei suoi poteri.
Tutto ciò premesso si rileva che per il provvedimento legisaltivo in esame non emerge alcuno dei caratteri di indifferibilità ed urgenza, né di atto dovuto o riferibile a situazioni di estrema gravità da non poter essere rinviato per non recare danno alla collettività regionale o al funzionamento dell’ente.
Per quanto rilevato si ritiene che con riferimento alla legge in esame il Consiglio regionale abbia legiferato oltrepassando i limiti riconducibili alla sua natura di organo in prorogatio e che conseguentemente il provvedimento sia nella sua interezza censurabile per violazione dell’art. 86, terzo comma, dello Statuto regionale in relazione all’art. 123 Cost.
A prescindere da quanto sopra osservato, si ritiene che la legge regionale presenti anche aspetti di illegittimità costituzionale relativamente alla disposizione contenuta nell’ articolo 1, comma 1, lettera b) che risulta censurabile sotto diversi profili, per i motivi di seguito specificati:
1) La norma contenuta nell’art. 1, comma 1, lett. b modifica l’art. 1, comma 17, della l.r. 23/11, prevedendo che
il costo di acquisto dell'acqua è definito annualmente dalla Giunta Regionale. tale previsione viola la competenza esclusiva dello Stato nella materia relativa alla determinazione delle tariffe per i servizi.
Infatti la Corte costituzionale, con molteplici pronunce (v. ex multis sent. nn. 246/09, 307/09, 29/10, 142/10, 67/13), ha chiarito che le regioni, stante il vigente riparto costituzionale di competenze legislative, non possono legiferare in materia di determinazione delle tariffe per i servizi idrici, atteso che “dall’interpretazione letterale e sistematica degli artt. 154, 155 e 161 del d.lgs. n. 152 del 2006 si desume che la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari settori di impiego dell’acqua è ascrivibile alla materia della "tutela dell’ambiente" e a quella della "tutela della concorrenza", ambedue di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
A normativa vigente spetta dunque allo Stato – che nella fattispecie ha attribuito il relativo potere amministrativo all’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico – la funzione di “predisporre il metodo tariffario per la determinazione, con riguardo a ciascuna delle quote in cui tale corrispettivo si articola, della tariffa del servizio idrico integrato, sulla base della valutazione dei costi e dei benefici dell'utilizzo delle risorse idriche e tenendo conto, in conformità ai principi sanciti dalla normativa comunitaria, sia del costo finanziario della fornitura del servizio che dei relativi costi ambientali e delle risorse, affinché sia pienamente realizzato il principio del recupero dei costi ed il principio "chi inquina paga” (art. 10, comma 4 D.L. 70/11).
Detto potere si estende anche alla fase della filiera relativa all’acquisto di acqua all’ingrosso, su cui incide illegittimamente la disposizione regionale in parola attribuendo il relativo potere alla Giunta Regionale. Infatti l'art. 21, commi 13 e 19 del D.L. 201/11 trasferisce all’Autorità “le funzioni di regolazione e controllo dei servizi idrici”, precisando in particolare che essa è chiamata a “definire le componenti di costo - inclusi i costi finanziari degli investimenti e della gestione - per la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, ovvero di ciascuno dei singoli servizi che lo compongono compresi i servizi di captazione e adduzione a usi multipli e i servizi di depurazione ad usi misti civili e industriali (...)”.
La norma regionale viola quindi l’art. 117, secondo comma, lettere e) e s) della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la legislazione in materia di tutela della concorrenza e di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.
2) Lo stesso articolo 1, comma 1, lett. b) della legge regionale prevede inoltre che “Le infrastrutture idriche (acquedotti e reti) e fognarie (sia delle acque bianche, sia delle acque nere), nonché gli impianti di depurazione, realizzati dai Consorzi per le aree di sviluppo industriale (consorzi ASI) restano di proprietà dell’ARAP” (Agenzia Regionale delle aree produttive istituita dalla L.r. Abruzzo 23/2011, costituita dalla fusione dei Consorzi medesimi e a cui la citata legge regionale ha attribuito le relative funzioni).
La disposizione in argomento appare in contrasto con quanto stabilito dalla normativa nazionale in materia di servizio idrico integrato.
Infatti, già l’art.10, comma 6 della ex L.36/94 prevedeva, entro il 31 dicembre 1995, l’obbligo in capo ai Consorzi ASI di trasferire gli impianti, da loro gestiti, di acquedotto, fognatura e depurazione al gestore del servizio idrico integrato dell’Ambito Territoriale Ottimale nel quale ricadevano in tutto o in parte per la maggior parte i territori serviti. Il trasferimento doveva avvenire secondo un piano da adottare con DPCM, proposto dal Ministro dei LL.PP., sentito il Ministero dell’Ambiente.
La norma traslata nell’art. 172, comma 6 del D.lgs. 152/2006, prevede che il piano di trasferimento, "nel rispetto dell'unità di gestione", venga adottato con DPCM su proposta del solo Ministero dell’Ambiente, sentite le regioni, le province e gli enti interessati.
Seppure Il DPCM in questione non sia ancora stato emanato, sussiste l’obbligo al trasferimento, posto che esso è previsto da una disposizione normativa specifica, mentre la norma regolamentare mancante dovrebbe stabilire semplicemente le modalità del trasferimento stesso.
Peraltro, i Consorzi ASI sono definiti come enti pubblici economici (legge 5 ottobre 1991, n.317), nati con il compito di approntare le infrastrutture necessarie allo sviluppo industriale delle aree del Mezzogiorno, i loro beni non sono demaniali, ma beni indisponibili e come tali assoggettati al regime previsto dall’art. 830 cc., che, per quanto attiene alle modalità del loro trasferimento, rimanda all’art. 828, c. 2 che dispone “i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”. Nonostante il regime giuridico di alienabilità di detti beni, le normative di settore vigenti ne prevedono il trasferimento in concessione d’uso a titolo gratuito al gestore del servizio idrico integrato. La concessione d’uso a titolo gratuito è la sola tipologia di trasferimento possibile rientrando nella fattispecie del passaggio dei beni funzionali al s.i.i. di cui all’art. all’art. 153 del d. lgs. 152/2006, mentre la proprietà degli stessi resta in capo ai soggetti consorziati, ovvero agli enti locali.
Inoltre la disposizione in esame, prevedendo che la gestione sia affidata direttamente all'ARAP, si pone in contrasto con le norme in materia di tutela della concorrenza, consentendo l’eslusione delle norme statali e comunitarie che prevedono l'obbligo di procedere mediante gara all'affidamento del servizio, trattandosi di un servizio pubblico di rilevanza economica.
La norma regionale viola quindi l’art. 117, secondo comma, lettere e) ed l) della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la legislazione in materia di tutela della concorrenza e di ordinamento civile .
3) Ancora il medesimo articolo 1, comma 1, lettera b) della legge regionale presenta un’ulteriore criticità.
Il citato art. 1 infatti, nel demandare alla Giunta Regionale il compito di stabilire la tariffa dell’acqua all’ingrosso, prevede che “il costo viene definito sulla scorta (..) del decreto del Ministro dei lavori pubblici 1 agosto 1996 (Metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato)”, rinviando dunque, con effetto legificante, ai criteri tariffari previsti dal D.M. 1 agosto 1996, tra cui la remunerazione del capitale investito.
Il decreto ministeriale succitato – come chiarito dal Consiglio di Stato nel parere n. 267/13 - è stato reso inefficace dal referendum del giugno 2011 (secondo quesito), proclamato con DPR 116/11, nella parte in cui prevedeva la componente tariffaria corrispondente alla remunerazione del capitale investito, abrogata dal referendum.
La disposizione regionale, dunque, legificando i criteri tariffari contenuti nel citato decreto 1 agosto 1996 – tra cui la remunerazione del capitale investito – reintroduce la componente tariffaria relativa alla remunerazione del capitale investito, espunta dal referendum proclamato con DPR 116/11 in violazione del divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 della Costituzione.
Sulla base di quanto sopra esposto si ritiene che l'art. 1, comma 1, lett. b) della la l.r. in esame viola l’art. 117, secondo comma, lettere e) , l) e s) della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la legislazione in materia di tutela della concorrenza , ordinamento civile e di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema , ponendosi altresì in contrasto con l’articolo 75 della Costituzione.
Per tali motivi la norma regionale deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.
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